Salviamo il ricordo della tragedia dell'Heysel

La targa dell'HeyselNoi non dimenticheremo mai.

Aprile 2008, dal comunicato del gruppo "Bruxelles Bianconera":

".... Il 29 maggio 2008 si terrà forse per l'ultima volta la commemorazione delle vittime dell'Heysel.
Diciamo l'ultima volta perchè le autorità belghe ipotizzano da mesi, la distruzione dello stadio dell'Heysel e la delocalizzazione del monumento per ricordare i 39 morti di quella tragica notte.
Malgrado gli innumerevoli tentativi di avere una risposta sull'avvenire dello stadio, ci siamo trovati di fronte a qualcosa di più "grande" di noi, ci siamo trovati di fronte a dei politici determinati a portare fino in fondo i loro progetti, si parla persino di costruire un centro commerciale al posto dello stadio!
Forse la loro determinazione è grande, ma la nostra volontà e la nostra fede lo è ancora di più!..."


A settembre, la giunta Comunale di Bruxelles deciderà se demolire il nuovo Heysel, ricostruito sulle macerie del vecchio, nel quale si consumò la tragedia, dove persero la vita 39 tifosi juventini (per lo più padri di famiglia con figli al seguito), vittime della barbarie degli hooligans del Liverpool in quella serata del 29 maggio 1985.
Nei progetti urbanistici ci sarebbe la riqualificazione dell'area, considerata insufficientemente redditizia, con l'eliminazione dello stadio e riconversione in area commerciale.
L'obiettivo di ogni tifoso juventino deve essere la conservazione, ALMENO, della zona esterna allo stadio, dove sorge il muro con la targa che ricorda i 39 caduti e la meridiana monumento, inaugurata per il ventennale della tragedia.
Iniziative sono state attuate dal gruppo di "Bruxelles Bianconera" (vedi comunicato), che sta intervenendo presso il sindaco della capitale belga e presso le autorità competenti. Si stanno interessando della vicenda anche i più importanti siti web di tifosi bianconeri ma sarebbe auspicabile coinvolgere anche la società Juventus FC e persino le massime autorità politiche italiane, considerata la nazionalità delle vittime e dei loro familiari.
Familiari che avevano salutato i loro cari, che erano andati fin lassù con la speranza di celebrare la prima Coppa dei Campioni della storia juventina, dopo i falliti assalti di Belgrado e Atene.
Persone normalissime che per tutta la giornata assistettero allo spettacolo indecente offerto dai tifosi inglesi che occupavano la Grand Place, la piazza principale della capitale vallona, ubriachi fradici e brancolanti in un mare di bottiglie e cartoni di birra.
E nonostante questo le autorità sottovalutarono il pericolo, lasciando che la frangia più facinorosa del tifo “red” fosse sistemata nel settore “V”, a stretto contatto con il settore “Z”, dove avevano trovato posto i tifosi juventini probabilmente più quieti tra quelli presenti allo stadio.
Già, lo stadio. Uno stadio fatiscente, inadeguato ad ospitare una finale europea di quel livello. Uno stadio con misure di sicurezza praticamente inesistenti, con struttura portante in legno, di una solidità paragonabile ad un castello di carta.
L’afflusso dei tifosi avvenne in modo problematico. Secondo alcune testimonianze i controlli furono tutt’altro che efficaci, anzi, per molti testimoni di controlli non ci fu nemmeno l’ombra. Questo fece in modo che si accumularono, probabilmente, molti più tifosi inglesi di quanti ne consentisse la capienza del settore a loro destinato. Circa un'ora prima della partita, gli “hooligans” cominciarono a spingersi verso il settore Z a ondate, sfondando le fragili reti divisorie. Gli inglesi continuarono a premere con sempre maggior veemenza, schiacciando gli spettatori juventini impauriti, che furono costretti ad arretrare ammassandosi contro il muro opposto al settore occupato dai sostenitori del Liverpool. Nella grande ressa che venne a crearsi, alcuni per evitare di rimanere schiacciati si lanciarono nel vuoto, altri cercarono di scavalcare ed entrare nel settore adiacente, altri si ferirono contro le recinzioni. Il muro crollò per l’eccessiva pressione, molte persone vennero travolte, schiacciate e calpestate nella disperata corsa verso una via d'uscita. La cosa più curiosa fu che i tifosi che tentavano di fuggire verso il campo trovarono i poliziotti belgi ad ostruirgli la strada. L’immagine più surreale che apparve a tutti i presenti (e ai telespettatori di tutto il Mondo) la consegnò la polizia belga, alcuni rappresentanti della quale circolavano a cavallo come fantasmi inerti sulla pista d’atletica, più preoccupati a preservare la propria incolumità che allo svolgimento del proprio lavoro.
La tragedia, inevitabilmente, si consumò e la gara venne rinviata con iniziò alle 21:39, dietro richiesta delle autorità belghe, per evitare guai ancora peggiori. La Juve non voleva giocare, ma dovette ubbidire per i motivi precedentemente citati. Il Liverpool pretese che, se si fosse giocata la gara, la Coppa dovesse essere in palio. I capitani Neal e Scirea lessero un comunicato dove precisarono che la partita sarebbe stata giocata: ”per motivi di ordine pubblico”.
La gara fu vera, cattiva, e venne vinta dalla Juve, con gol di Platini su calcio di rigore concesso per un fallo (avvenuto fuori area, dopo lancio di 50 mt del francese) su Boniek all’inizio del secondo tempo.
La Juve non mostrò la Coppa al pubblico, i giocatori fecero un giro di campo per ringraziare i tifosi che erano andati fino a Bruxelles, per veder realizzato un sogno, e per onorare chi non c’era più.
Se i giocatori fossero al corrente o meno di quello che era accaduto realmente, non si saprà mai: in merito ci sono testimonianze discordanti e probabilmente non è neppure giusto chiederselo e ancora meno giusto sarebbe giudicare.
Ormai è Storia, chiunque l’abbia vissuta sa che quella notte è IL DOLORE PIU' GRANDE vissuto dal popolo juventino, nonostante le finte retoriche e la demagogia degli avversari, che per anni hanno ironizzato (e ironizzano tuttora..) sui caduti, salvo ergersi a moralisti da quattro soldi in merito alla legittimità del trofeo.
A noi questo importa meno, del parere degli avversari s’intende. L’unica cosa che oggi possiamo fare, nell’attesa di ottenere riscontro dalle autorità, è riuscire a divulgare e a sostenere questa iniziativa prima di tutto tra noi tifosi, considerato che, alla fine, i 39 morti erano semplicemente tifosi, come lo siamo tutti noi.

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Quello che riportiamo ora è il ricordo di gobbodimare, un membro del Team, che quella sera era presente all'Heysel:
"Sono passati più di vent’anni da quel giorno e mi sembra sia passato un secolo. Anzi, ad essere più precisi, quando ci penso faccio una gran fatica a ricordare e purtroppo su tutto prevale quanto visto, dopo, in tv.
Alla finale dell’Heysel andai con mio zio al quale mia madre mi aveva affidato dopo la prematura scomparsa di mio padre. Tutto nacque da una vecchia scommessa fatta con lui, milanista di ferro, che non poteva accettare che il suo unico figlio fosse un gobbo e amava ripetere che se mai fossimo andati in finale di Coppa dei Campioni mi avrebbe addirittura accompagnato. Proprio grazie alla parola data da mio padre, riuscii a guadagnarmi il permesso di mia madre e prendemmo i biglietti per la finale, dopo che la cosa mi era stata negata due anni prima per Atene. Aspettai quel giorno con un’ansia indescrivibile, ansia che si spense al nostro arrivo in città ove fu chiara la sensazione che la gente del posto mal sopportasse l’invasione “pacifica” di migliaia di tifosi, così come che per la maggior parte degli inglesi il calcio fosse solo una scusa per bere e scatenare risse continue.
Fino a quel giorno nei miei occhi di quindicenne il mio calcio e la mia Juve erano stati rappresentati dai gol visti in tv a 90° minuto e alla domenica sportiva e dall’album delle figurine panini, con gli scudetti argentati custoditi come trofei e i doppioni bianconeri non scambiati per niente al mondo.
Fu forse per questo che, nonostante tutto, ammirai come in un sogno i colori e i calori di quel pomeriggio, così come i canti dei tanti tifosi inglesi incontrati nel nostro tragitto verso lo stadio. Per sentirmi adeguato alla situazione avevo stretto al collo la mia prima sciarpa bianconera, fatta di lana e acrilico, nonostante gli abbondanti venticinque/trenta gradi della capitale belga. Con la stessa fierezza, gli inglesi stringevano invece le loro bottiglie verdi e non ne incontrammo mai uno che non fosse sovrappeso, paonazzo in viso e pieno di alcool in corpo. Entrati finalmente nello stadio sentii dire dai “grandi” che non era quello il settore a noi destinato e che avrebbero dovuto tenere noi ragazzi sott’occhio. Rimasi senza parole nel vedere che di fronte a noi c’era un muro bianconero, il muro si trovava purtroppo nella curva opposta, era nell’altra curva che si trovavano i nostri connazionali. Noi, invece, eravamo stretti dalle tribune a destra e, a sinistra, da un muro rosso sangue, di una tonalità così intensa da macchiare anche il cielo del finalmente fresco tramonto belga. Neanche il tempo di godermi l’attesa di quello che auspicavo potesse essere uno dei giorni più belli della mia vita, che fummo letteralmente coinvolti da cori e dai movimenti degli inglesi che, fortunatamente, sembravano ignorarci o meglio non puntare dritto verso di noi, dandomi una sensazione di astrazione che è davvero difficile spiegare. Mentre tutti correvano, urlavano e protestavano, io ero a bocca aperta convinto di non essere nel posto che mi ero immaginato, di contro i reds hooligans avanzavano abbracciati tra loro e precedevano e preannunciavano le loro sortite con un fitto lancio di bottiglie, sassi e mattoni di cui tutto lo stadio, dentro e fuori, era incredibilmente pieno come neanche il peggior cantiere. Notammo così che le tifoserie non erano affatto divise tra loro e che, anzi, gli inglesi avrebbero facilmente sfondato le fragili reti divisorie, come in effetti avvenne. A tutelare la nostra incolumità c’erano una decina di poliziotti distratti e non curanti che presto fuggirono chissà dove e chissà da dove. Ci furono diverse ondate inglesi e a ogni ondata tutta la gente pacifica cercò di occupare nuovi spazi: c’era chi scappava, chi saliva e chi, come noi, scelse inconsapevolmente di salvarsi la vita, scendendo verso il terreno di gioco. La poca polizia belga presente sul campo diede l’impressione di volersi godere lo spettacolo con l’unica preoccupazione di evitare a tutti i costi l’invasione sul prato verde da parte degli spettatori. Fu probabilmente per questo motivo che ci vietarono, a più riprese, di toccare anche solo i cancelli e, per usare un linguaggio internazionale, non esitarono ad usare il manganello su tutto ciò che sporgesse dalle recinzioni, mani del sottoscritto comprese. All’ennesimo assalto inglese la gente dietro e sopra di noi sembrò scomparire e fu così che, approfittando della distrazione dei poliziotti, riuscimmo ad “invadere” il terreno di gioco.
Sul campo vi era una situazione surreale, con la polizia a cavallo che si agitava senza senso brandendo i manganelli al vento, il tutto con gente che correva in ogni direzione.
Dopo poco ci fu intimato di scegliere se abbandonare lo stadio o continuare a “vedere la partita”. Scegliemmo la prima soluzione e, scappando via con i poliziotti che ci spingevano con degli sfollagente di legno, udimmo le urla e i pianti disperati di non so quante persone. Lì per lì non comprendemmo l’entità della tragedia, ma preferimmo non tornare sugli spalti perché la situazione si era fatta insostenibile e c’era una tensione inimmaginabile con la nostra curva che premeva per “vendicare” quanto accaduto.
Una volta usciti dallo stadio fummo ospitati da una famiglia di emigrati italiani che ci fece telefonare a casa per rassicurare i parenti che, nel frattempo, avevano appreso da Bruno Pizzul che vi erano stati 39 morti.
Durante il viaggio di ritorno nessuno disse una parola una ed io e la mia sciarpa, col passare degli anni, incredibilmente, abbiamo dovuto passare più tempo a giustificare quella coppa piuttosto che a commemorare i nostri meno fortunati compagni di avventura."