Perchè Kakà è stato un affare di stato

Silvio BerlusconiLa battuta è di quelle facilissime: con l'affare Kakà più d'uno se l'è fatta addosso.
Se infatti comprendere la ratio dell'interruzione della trattativa, al di là di quello che sostiene la retorica ufficiale, è impresa ardua e in cui non ci cimenteremo, intatto rimane il turbamento per un'offerta che c'era eccome, ed era dinamitarda, shock emotivo allo stato puro.
Cento e qualcosa, forse cento e cinquanta. Dieci milioni solo al papà di Ricardo Kakà. Che, ha ironizzato il Guardian, si presume essere l'incorruttibile Gesù. Dieci milioni per Bosco Leite quindi, e solo nove per assicurarsi Bellamy, l'altro acquisto immaginato dal City. Robe da pazzi. Sarà vero?
Sterlina più sterlina meno, era vero eccome. Nessuna delle tre parti ha negato.
L'offerta ha dell'incredibile, si diceva. In realtà i mutui vantaggi sembravano ben tangibili, a parte forse per Kakà, certo gratificato da una montagna di soldi, ma costretto a una squadra di minor blasone. La squadra certo. Ma vuoi mettere il campionato?
La reggenza Matarrese si è rivelata pugnace sostenitrice di un rigurgito provincialista il cui risultato è una visione globale del sistema-calcio retrograda e approssimativa. In Italia, dopo tutto, si sta bene, e avanti così.
L'offerta per Kakà, in realtà, non avrebbe dovuto sorprendere nessuno. Il City è la stessa squadra che ha comprato Robinho pochi mesi fa. Robinho che, per intenderci, non è Kakà, ma indisciplinato e umorale finchè vuoi, non è nemmeno Denilson. Era uno, per intenderci, che Fabio Capello teneva in campo. Uno che giocava nel Real Madrid, mica nel Rayo Vallecano e nemmeno nell'Atletico, ed è poco più che ventenne.
Il City ha semplicemente fatto una richiesta fuori mercato, per il Madrid e per lui. Lo ha pagato ben più del suo effettivo valore. E ora fa le bizze in azzurrino.
Oppure prendi Zarate, altro gran bel giocatore poco più che ventenne, che Lotito è andato prendere in Arabia Saudita, dove usualmente svernano i Figo, se non c'è un insensato Moratti a convincerli a rimanere.
E ancora il mercato russo e quello ucraino. I soldi hanno comprato delle prime scelte dal Sud America: da Cavenaghi a Jo, da Vagner Love a Elano, oggi per l'appunto al City. Gente da Selecao, mica Pedrinho e Luvanor.
Pecunia non olet, e non vi dico niente di nuovo.
Olezza solo quando ti rendi conto che potresti prendere ancora più denaro altrove, e allora lasci il deserto o la steppa.
E' il caso di Zarate, che a vent'anni dall'Arabia Saudita se ne è andato, per non perdere valore in un contesto non competitivo. In altro modo, quello di Elano o Cristiano Lucarelli, che hanno abbandonato un contesto non remunerativo a diversi livelli.
Manchester, però, potrà essere fredda e brutta, il City una squadra senza grande blasone, può darsi che si mangi male, come ammonisce De Laurentiis. Ma De Laurentiis ignora che sicuramente, ci insegna Cristiano Ronaldo, esistono anche lì donne che si lavano i genitali, i comfort della società occidentale, uno star-system che appaga il desiderio di apparire e di avere raggiunto uno status. Sopratutto esiste un campionato di primo livello, in cui ci si può confrontare con i migliori giocatori del pianeta.
Si può dire lo stesso dell'Italia? Un primo fatto è che l'anno scorso ci hanno asfaltato. In Champions tre su tre, e in nessuno dei tre casi c'è stata partita. Più forti le inglesi. La partita più interessante è stata forse però quella di Coppa Uefa, tra Fiorentina e Everton. Tra la quarta forza del campionato italiano, e la quinta di quello inglese. Perchè si dice che in Inghilterra esista un grosso gap tra le top four, squadroni di livello europeo, e le altre, squadre mediocri non competitive. Bene: la Fiorentina ha vinto il doppio scontro ai rigori. Ma il confronto, molto emozionante e ben giocato, è stato pari, l'Everton all'altezza.
Un secondo fatto è che il campionato inglese attrae investitori e investimenti, mentre quello italiano sembra avere un blocco all'entrata per gli stranieri, o forse semplicemente non interessa. Magnati russi, sceicchi arabi, finanzieri americani cercano di sviluppare business in Inghilterra, in Italia non va così, e quando tocca vendere la Roma, ogni volta si spera la compri Caltagirone o i fratelli Toti.
C'è un fattore strutturale, ossia la diversificazione di entrate del calcio britannico, che attinge da stadi di proprietà, un gran numero di sponsor, un merchandising ben studiato, in contrasto al modello italiano che vive soltanto di diritti tv.
C'è forse anche un fattore politico. Ossia il fatto che in Albione si possa investire, convinti di giocare secondo le regole del libero mercato, sviluppando un volume di investimenti proporzionale alle proprie capacità di gestione, e, non trascurabile, pagando meno tasse. In Italia non è che le società paghino le tasse, intendiamoci. O meglio le pagano quando vogliono, preferibilmente dopodomani. Sono tasse più pesanti, è vero, ma il sistema è viscoso, le regole cambiano, ogni tanto un aiuto di stato, che solo la Juve del mostro Moggi rifiuta, e via. Il convento è povero, ma i frati, verosimilmente, sono ricchi. Un sistema italianissimo.
Se non sei italiano, meglio stare lontano. O qualcun'altro ci spieghi come mai i maggiori imprenditori italiani facciano la fila per comprarsi una squadra, sapendo bene che ufficialmente i bilanci sono tutti in perdita, mentre tra gli stranieri non ce ne sia uno a volersi cimentare.
Quello che proprio non c'entra, invece, sono i diritti tv e la loro revisione in senso collettivo, che rischierà di peggiorare le cose. Una pioggia di denaro che passerà dalle casse delle grandi (in sostanza per come è concepita la legge, sopratutto da quelle della Juventus) a quelle delle medie e piccole squadre. Ne aumenterà la competitività? Attendiamo l'ardua sentenza, ma gli esempi di buona gestione sportiva e finanziaria in questo contesto, si contano sulle dita di una mano.
Mentre in Inghilterra le piccole e medie squadre, sviluppano stadi all'avanguardia, attraggono sponsor importanti, curano il marketing, e di conseguenza comprano giocatori più forti, che incentivino un circolo virtuoso, in Italia le cose non vanno così. Qui resiste la figura del presidente "filantropo, angelo del Signore".
Noi lo abbiamo sempre detto: senza una corretta politica di controllo dei bilanci, si droga la concorrenza. Questo in Italia, e anche all'estero, per chi invece è costretto a certificare con dovizia di zelo il proprio bilancio. Ma nel lungo periodo questo compromette l'evoluzione del sistema calcio italiano. Più soldi di diritti tv per tutti non significa più competitività, se non esiste un modello di sviluppo per diversificare le entrate, e una revisione seria dei bilanci che permetta di comprendere come questi soldi sono investiti.
Per queste ragioni ci troviamo in una situazione di debolezza.
Ieri una squadra di seconda fascia inglese (e non russa o araba) stava per comprarsi il gioiello di una squadra di prima fascia in Italia. Mentre l'Inter, prima fascia italiana, schiera come titolare insostituibile Muntari, seconda fascia inglese. Un panchinaro del Liverpool, Sissoko, è oggi forse uno dei tre centrocampisti più forti in Italia. E questi sono stati acquisti buoni. Il Milan è andato sul mercato, schernito dai giornali inglesi, che lo ha descritto come un "cimitero di elefanti".
E' questa l'evoluzione: il campionato inglese sta per diventare la NBA del calcio, e il campionato italiano il campionato italiano di basket? Petrucci guida il CONI. E Dominique Wilkins, star degli Atlanta Hawks, finì la carriera alla Fortitudo. Beckham è il Dominique Wilkins del calcio?
Oppure semplicemente le squadre italiane hanno fatto buoni affari con Sissoko e Muntari, e al di là dei proclami, teniamo botta grazie a una maggiore intelligenza nello scegliere i giocatori, anche con possibilità economiche minori?
Il concetto di NBA affascina. Il G14, quando ancora era guidato da Bettega, mirava all'Eurolega sul modello americano. Grandi squadre, tutte assieme per tutto l'anno. Il meglio del meglio ogni settimana in tv. Fu avversato ideologicamente come una congrega di turbocapitalisti insensibili ai valori del calcio.
Ma non vorrei che oggi la Superlega si facesse lo stesso, ma in Inghilterra.
Il Manchester United ormai compra i rookies ai draft. Tre serbi di qua, due portoghesi di là, tutti ventenni, senza profanare culle come fanno Arsenal, Barcelona, Inter. Tanto ha uno squadrone. Le altre squadre crescono, e crescono gli investitori che vogliono entrare nel business. Comprando il Portsmouth, il Tottenham, il City. Magari un domani gli Oxford Bulls e i Cambridge Lakers.
Il meglio in Europa, appena compie i vent'anni, e ha qualche riconoscimento, va a finire lì. Vedi Samir Nasri o Luka Modric, andato al Tottenham mica al Chelsea. Può competere il Real Madrid ( Huntelaar, Sneijder o Van der Vaart erano pezzi pregiati sul mercato), il Barcelona (che ha portato via dalla Premier due tipini niente male come Henry e Hleb), il Bayern Monaco (Ribery su tutti). E, ancora oggi, il Milan, la Juventus e l'Inter, seppur coi suoi magri risultati europei. Ma le nostre squadre, a differenza delle summenzionate, non hanno preso nessun campione giovane, davvero ambito sul mercato. A meno di credere che qualcun'altro puntasse veramente su uno come Quaresma.
La prospettiva è, ad ogni modo, sistemica.
Il campionato inglese, sotto il profilo tecnico, diventa sempre più quello in cui giocano i migliori calciatori del pianeta. Sotto il profilo economico, ha un'attrattiva incomparabile. I diritti tv e il merchandising sono una partita che non si gioca più solo in casa propria. I mercati per esportare il calcio ci sono: dai paesi arabi alla Cina, i giovani non tifano l'FC Shanghai ma una squadra inglese, italiana, spagnola a scelta. La scelta si potrebbe ridurre.
In tutto il mondo, se ti piace il basket, guardi e compri NBA. Nessuno all'estero guarda Cantù contro Varese, e nemmeno il derby di Bologna. Questione di spettacolo.
E se avessero venduto Kakà?
Io credo che ormai i giocatori di assoluto livello nel fiore dell'età in Italia non siano poi tanti. Per la verità, me ne vengono in mente solo 5: Kakà appunto, Ibrahimovic naturalmente, Buffon (un portiere ha una carriera più lunga), De Rossi e Lavezzi.
Io credo che venderne soltanto uno tra i primi tre citati, potrebbe avere un effetto domino sugli altri.
E l'accelerazione verso la perdita di competitività diventerebbe repentina e incontrovertibile.
Trattenere Kakà è stato perciò, azzardiamo, precisa volontà di Berlusconi.
Ma non del Berlusconi presidente del Milan. Del Berlusconi Presidente del Consiglio, a cui è toccato salvare il sistema calcio italiano, da quella che sarebbe stata una vera e propria disfatta.
Torneranno però. E non basterà telefonare al Processo, osannato da qualche giornalista.
Se non si cambiano le cose e non si recupera attrattiva a tutti i livelli, il campionato italiano è destinato a diventare una competizione di calcio minore.
Kakà resta, Moratti potrà dire di no per Ibra (per quanto ancora?), De Laurentiis convincere Lavezzi che l'Inghilterra fa schifo, e Buffon potrà fare un'altra comoda scelta di vita.
Ma se offrissero 60 milioni alla Roma per De Rossi, come la mettiamo?
Il meccanismo, ulteriore similitudine, potrebbe diventare lo stesso di quell'altro romano, Bargnani, che va in America.
La Roma non può permettersi di non cederlo. E, se se lo potesse permettere, significherebbe che il calcio italiano continua sulla stessa china di prima, con gli aiutini, gli occhi bendati, i bilanci con cui combinare quello che si vuole.
Cinque anni fa circa, la Roma stava per fallire. Non aveva i soldi per iscriversi al campionato. Alla fine non solo si iscrisse, ma comprò anche Chivu per 20 milioni. Moggi non c'entrava niente, anzi era antagonista. La Roma restò con Baldini e Capitalia garantì con una fideiussione. Anche se l'Ajax trovò qualche problema nel farsi pagare.
Riusciranno anche questa volta i nostri eroi...?
Ci piacerebbe rispondere di no. Ma le vie del calcio italiano sono infinite.
Almeno fino a quando conterà qualcosa.

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