La lezione del Barcellona

barcellonaC’è una squadra che in Europa suscita ammirazione per il calcio che esprime.
Una squadra costruita in modo sicuramente perfettibile, ma in linea con la filosofia che da qualche anno sembra essere (solo a parole, purtroppo) quella della nuova Juventus 2006.
Campioni di lungo corso e giovani provenienti dal vivaio, giocatori rigenerati e scommesse rischiose non del tutto azzeccate.
Ma idee chiare e sforzi concreti, finalizzati ad una reale competitività della squadra, l'esatto contrario di quello che si è visto alla Juve in questi 3 anni di gestione elkanniana.
Questa squadra è il Barcellona.
Si dirà, bella forza; il Barcellona ha giocatori straordinari, che non sono sul mercato, o che, qualora lo fossero, avrebbero un costo proibitivo per le tasche bianconere: come fai a paragonarlo alla Juventus? Nessuno nega che i catalani possiedano un budget largamente superiore rispetto a quelli a disposizione della Juventus e delle altre realtà italiane (comprese quelle dai bilanci “ballerini” sostenute da presidenti del Consiglio e petrolieri ecologisti), ma la storia recente del club simbolo, non solo calcistico, della Catalunya (per quella gente il Barça è “Més que un club”) presta il fianco ad un’analisi che non può non sottolineare qualità come saggezza e competenza, doti che dalle nostre parti sono sempre più rare.
Quindi, torniamo al quesito iniziale: com’è possibile solo pensare di paragonare la Juventus ad una squadra del genere? In realtà, non vogliamo paragonare la Juve di oggi, che naviga a vista tra mille incertezze, ad una squadra che è probabilmente la più bella del mondo (sulla più forte si può discutere, ma se si indicano i catalani tra i primi 3 più forti del Pianeta, nessuno si scandalizza); vogliamo semplicemente dire che, nel suo piccolo, la Juventus dovrebbe finalmente ragionare seriamente e “copiare” il sodalizio blaugrana.
Diamo un’occhiata al recente passato del Barcellona.
I catalani venivano da una stagione 2007/08 disastrosa, l’ultima con Rijkaard allenatore, conclusa con un terzo posto nella Liga, a 17 punti dal Real Madrid campione e a 7 dal Villarreal secondo.
Quindi, preliminari di Champions League obbligati per una squadra che, come miglior risultato stagionale, aveva ottenuto la semifinale del massimo torneo continentale.
Nessun trofeo ad arricchire la bacheca, e questo aspetto, più che l'indebitamento della società, causò la contestazione dei soci/tifosi, che notoriamente da quelle parti hanno un peso consistente nel decidere le sorti di un club.
A differenza di quello che succede da noi, l’insoddisfazione degli azionisti si concretizzò in una mozione di sfiducia nei confronti dell’avvocato Joan Laporta, l’uomo che, appena due anni prima, in Catalunya veneravano come si conviene al presidente capace di portare il Barça al secondo successo della sua storia in Coppa dei Campioni/ Champions League.
Che differenza, eh? In Catalunya, dopo una stagione deficitaria, contestavano l’artefice dei trionfi del 2006, mentre a Torino la massa ha atteso 3 anni per manifestare pubblico dissenso nei confronti di chi, proprio dal 2006, sta distruggendo giorno per giorno la Juventus.
Laporta, seppur sfiduciato, mantenne la carica di presidente per pochissimi voti (non si raggiunse il quorum di 2/3 di voti contrari) e, in una posizione di debolezza, dovette scendere a patti con il volere della piazza, che spingeva per un rinnovamento a forte tinte catalane.
Un po’ come auspicano molti tifosi juventini oggi, ovvero che qualcuno di competente e molto juventino venga ammesso in società. Laporta era avvantaggiato, in sede già c’era un direttore sportivo di valore e di pedigree blaugrana: Aitor Beguiristain, ex colonna della fascia sinistra nel “Dream Team” di Cruyff.
Il basco è l’uomo che ha scelto i giocatori che hanno fatto le fortune del Barcellona di questi anni, anche se molti giurano che dietro alle sue decisioni ci sia sempre la “longa manus” del suo ex allenatore, che da 35 anni influenza il destino del club del “Camp Nou”.
Figure che, annoia ripeterlo, ma è una triste verità, alla Juventus mancano.
Nella scorsa estate, quindi, Beguiristain si mise al lavoro, operando scelte apparentemente impopolari; liberò Thuram (prima ancora che si manifestasse il problema che lo costrinse a ritirarsi) e vendette (benissimo) Zambrotta e Ronaldinho (ex idolo della tifoseria) al Milan.
Il processo di sfoltimento proseguì con le cessioni di Deco al Chelsea e del giovane messicano (mai sbocciato del tutto) Giovani dos Santos al Tottenham; partirono anche Edmilson, campione del mondo 2002 spesso falcidiato dagli infortuni, e Oleguer (icona politica del club) spedito all’Ajax. In sostanza, il Barcellona “estate 2008” si liberò di un numero consistente di “figurine” gloriose e plurititolate, ma al tempo stesso ingombranti, decadenti e costose, riservandosi il colpo ad effetto per la panchina, che venne affidata ad un idolo di casa, un ex ragazzo della “Masia”, la “cantera” del club.
Il nome scelto, oggi lo conosciamo benissimo tutti, fu quello di Josep “Pep” Guardiola, bandiera catalana e capitano del Barcellona negli anni Novanta, la cui carriera da allenatore si limitava a una stagione in Tercera Division (quella che in Italia oggi chiamiamo Lega Pro, ma che conosciamo come Serie C) alla guida della squadra riserve, da quest’anno tornata all’antica denominazione “Barcelona Atlétic”. Una scommessa? Può essere. Ma Guardiola è giovane, ha idee spregiudicate, è idolatrato dai tifosi, conosce l’ambiente ed è giustamente ambizioso.
Un identikit che anche il più disinteressato tra i tifosi bianconeri non potrebbe che associare a “qualcuno” accostato al nome della Juventus in queste settimane.
Basterebbe avere coraggio.
Guardiola, appena insediato, dichiarò che fare a meno dei tre leaders della formazione campione d’Europa a Parigi 2006 (Eto’o, Ronaldinho e Deco) era possibile, avallando di conseguenza l’azzardata campagna cessioni di cui sopra, riuscita quasi del tutto con la sola eccezione del centravanti camerunese, finalmente liberato dalle invidie e dalle liti di spogliatoio con i brasiliani.
Con somma soddisfazione di tutti.
Gli arrivi dell’estate 2008, se si esclude Dani Alves, costoso ed efficace rinforzo proveniente da Siviglia, sono stati di secondo piano.
Il giovane Piqué, cavallo di ritorno da Manchester, è un rincalzo dalle buone prospettive (ma Sir Alex Ferguson che lascia partire un giovane suona strano…), esattamente come Seidou Keita (non del tutto negativo ma largamente inferiore alle attese), Càceres e l’ex “gunner” Hleb, pagato poco più di Tiago e, per ora, finito allo stesso modo.
Il Barcellona si è basato sulla rosa che già aveva, costruita sul vivaio, su alcuni acquisti mirati fatti in passato e su alcuni giocatori rigenerati.
Se Messi, Xavi, Iniesta, Puyol e Bojan (poco utilizzato, ma è classe 1990…) sono espressione della bontà del lavoro sui giovani (a più riprese), va sottolineato che Marquez è in rosa dal 2003, Eto’o dal 2004 (era un progetto di campione, non ancora il fenomeno odierno), Yaya Touré e Henry dal 2008.
Da questo mix è uscita la straordinaria stagione attuale: Liga e Copa del Rey già in saccoccia e finale di Champions League da giocarsi fra due settimane.
Guardiola è stato bravissimo, meglio di lui ha fatto la società, che ha creduto in lui e lo ha difeso anche dopo i non brillanti risultati di inizio stagione, quando anche il gioco faticava a svilupparsi in modo convincente e lo scetticismo iniziava a serpeggiare persino tra i suoi sostenitori.
Se qualcuno, da Torino, volesse prendere esempio e impostare finalmente un progetto concreto e non velleitario come quello sbandierato in questi anni, si ispiri alla filosofia sportiva dei catalani.
Diego è un primo passo, ipervalutato, in verità, ma almeno quest’affare sembrerebbe non fare la fine di quello per Xabi Alonso.
Da verificare l’adattamento del brasiliano al nostro calcio.
Ma, se il piccolo numero 10 verdeoro dovesse funzionare, si potrebbe almeno vedere un calcio migliore.
Questo non significherebbe automaticamente raggiungere il livello del Barça, ma è forte la sensazione che, con ulteriori, opportuni inserimenti mirati (dentro e, soprattutto, fuori dal campo), rimettere le “cose a posto”, almeno nel torneo aziendale TIM, sia tutt’altro che impossibile.


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