Scusate, quand'è che torneremmo grandi?

ToniIl mio desiderio calcistico per il nuovo anno era semplice: speravo di scrivere solo di una Juve competitiva e battagliera sia in campo che fuori, come l’avevo lasciata nella seconda parte del 2010 e come la sua storia impone.
D’altronde l’andamento della stagione corrente mi aveva fatto pensare che, forse, il tempo dei disastri stava terminando.
Puntuale come la bolletta del gas, la settimana che ha inaugurato il nuovo anno ha riportato in auge dinamiche decadenti di cui la Juventus sembra irrimediabilmente prigioniera.
Elkann o Agnelli, Blanc o Marotta, cambiano i fattori ma il prodotto non cambia.
In ordine temporale, non è purtroppo una novità l’ennesimo infortunio di Iaquinta, che se fosse un impiegato sarebbe già stato licenziato da tempo per giusta causa.
La novità più deprimente (grave infortunio di Quagliarella a parte) riguarda la conclusione della telenovela Dzeko, il centravanti perfetto per questa Juve, quello che per una serie infinita di motivazioni (tecniche, ma non solo) DOVEVA finire a Torino.
Dzeko o chi per lui, intendo quel tipo di giocatore, sarebbe stato un segnale ai tifosi e alla concorrenza, sarebbe stato il modo più prepotente per far capire che “la Juve fa sul serio” e vuole fortemente rientrare a pieno diritto nel calcio che conta.
Che si fosse fatto ad agosto scorso (con o senza Krasic) o nel prossimo giugno, l’affare andava concluso anche a quelle cifre, visto che a qualcuno negli ultimi tre anni è stato concesso di dilapidare una fortuna.
Invece, nessuna concessione all'"osare", perché presumibilmente il principino (Elkann), dopo aver dato carta bianca per un anno al proprio uomo di fiducia (Blanc) e visti i risultati, deve aver deciso che il rubinetto dovesse rimanere chiuso.
Immagino già le obiezioni di chi, arrivato a questo punto, volesse puntualizzare: la Juve è sempre stata formichina, non è mai stata "cicala" per vocazione e, quando ha provato a diventarlo, vedi la parentesi montezemoliana e l’annata pirotecnica targata Secco-Blanc, ha vissuto le stagioni sportivamente più tristi della sua ultracentenaria storia.
Respingo l’obiezione: in passato c’era chi prima di tutto pensava ad assicurare competitività alla squadra.
Dalle faraoniche spese bonipertiane (un nome su tutti: Vialli) fino a chi, pur non disponendo di grandi risorse (esattamente come oggi) spendeva 45 miliardi di lire per assicurarsi il centravanti campione d’Europa, fresco di golden goal ma presentato come la riserva di Inzaghi.
Esattamente come Kovacevic, altro tizio costato un trentello abbondante e preso per scaldare la panchina. Averne oggi, come Kovacevic.
Altra obiezione: il City dispone di una montagna di soldi, quella di Mansour non è concorrenza, è bulimìa.
Obiezione respinta: il City fa la spesa solamente nelle corsie dove le grandi lasciano abbastanza spazio per il passaggio del carrello mancuniano.
Sto (amaramente) parlando delle Grandi vere, ciò che la Juve, oggi, evidentemente NON VUOLE PIU’ TORNARE AD ESSERE.
Perché dopo aver ascoltato per più di un semestre voci ufficiose (i giornali, ma è il loro mestiere) e ufficiali (Marotta) esprimersi in termini più che possibilisti in merito ad una felice chiusura della trattativa per il bomber bosniaco, eccoci di nuovo a raccontare un finale della storia cui ormai abbiamo assistito troppe volte: ma speravamo sinceramente di aver esaurito il bonus. Leggete: "Su Dzeko siamo ottimisti", "Per Dzeko ci proveremo fino all’ultimo", fino a "Dzeko non è un sogno sfumato, è un sogno rimandato", frase che risale a qualche settimana fa.
Non assomigliano in maniera fin troppo sospetta a concetti quali: "Compreremo tre campioni, uno per reparto fra i top 15 nel ruolo"; "Spenderemo come il Manchester"?
Marotta come un Blanc qualsiasi, solo un po’ meno savoiardo.
La priorità è sempre stata un grande bomber, solo in società non l’hanno capito oppure hanno fatto finta di non capire.
Dalla sera in cui Dzeko affrontò le visite mediche per il City cominciai a rivivere i momenti in cui mi illudevo con Xabi Alonso e si materializzava Poulsen; accarezzavo l’idea Mascherano e mi ritrovavo Tiago e Almiròn in squadra.
Ora, da Dzeko (ma anche Benzema, ecc.ecc.), complice la sfortuna di Quagliarella (a proposito del quale mi auguro sinceramente un rinnovo del prestito, gratuito però), passiamo a Toni, uno che a differenza di Amauri e Iaquinta ha un passato da bomber vero.
Ma resta pur sempre un passato.
Da un paio d’anni il quasi 34enne modenese (coetaneo di Trezeguet, epurato in estate) sembra la parodia di se stesso; da quando Van Gaal lo emarginò dal suo Bayern mandandolo in prestito nella Capitale.
Che la Roma non lo abbia confermato e il Genoa se ne liberi con tanta rapidità dovrebbe far insospettire e incazzare il popolo juventino, che nutriva ben altre aspettative.
Fra l’altro, nell’ottica di una filosofia di mercato tesa a cogliere "opportunità, occasioni, rispettando le linee guida della società, che chiedeva in primis di abbattere il costo del lavoro e ringiovanire la rosa", Toni non c’entra nulla: nonostante la cessione a titolo gratuito, l'ingaggio decurtato (non si sa ancora di quanto) rispetto a quello faraonico che il giocatore percepiva a Genoa, il contratto fino al 30 giugno 2012 non fa che aggiungere un altro ultratrentenne in attacco. E’ una manovra che non è da Juventus, che si ritrova con una prima linea composta da Del Piero ('74), Iaquinta ('79), Amauri ('80) e Toni ('77), con il solo capitano in scadenza al 30 giugno e tre alternative fisicamente precarie (compreso l'ultimo arrivato) e dal "fatturato" in crollo verticale.
Gli esempi riportati qualche paragrafo sopra sono lì a testimoniarlo, la Juve e i suoi tifosi non meritano questo.
E sinceramente quando Marotta, novello grillo parlante del mercato bianconero, forte con i deboli (i suoi serbatoi preferiti sin dai tempi genovesi) e debole con i forti (i club stranieri in generale), si sbilancia con frasi del tipo: "A giugno faremo un grande mercato" non nego di provare brividi di paura.