Essere juventini a Napoli

tifosiEssere juventini a Napoli è qualcosa tipo una missione. Essere juventini a Napoli è uno stato dell’anima. Sei straniero tra la tua gente, se sei juventino a Napoli. Bisognerà prima o poi pensare ad un contributo economico mensile agli juventini a Napoli, una specie di reddito di cittadinanza. O un risarcimento danni. Non fosse altro per le volte che sei stato costretto a sentire quella frase stupida che se sei napoletano non puoi tifare per una squadra del Nord. Come se un bambino di sei anni, accecato d’amore per quelle magliette bianconere potesse sapere di Bossi e del Regno delle Due Sicilie. E ti verrebbe voglia di urlare che tu questa terra la ami, questa dannata, meravigliosa terra la ami davvero, forse anche più di tanti che la domenica impazziscono per undici calciatori con la maglietta azzurra. Che la ami e che saresti disposto a morirci e, forse, lo hai già fatto, quando hai deciso di passarci la tua vita. Ma che la maglietta bianca e nera a strisce verticali, quella ce l’hai stampata sul cuore e non ci puoi fare davvero niente.
Sei tifoso di un’idea, se sei juventino a Napoli; sei tifoso di una immagine. Anche la domenica in cui vinci uno dei tuoi 29 scudetti o la notte in cui ti capita di salire sul tetto del mondo, se sei fortunato e ti sei circondato di amici che vivono la tua stessa condizione può scapparci un brindisi con uno spumante, torinese, e poi tutti a casa. Niente cortei, niente follia collettiva, nessuna isteria, nessuna condivisione con l’universo. Un coito interrotto.
Sei tifoso di un'immagine, se sei juventino a Napoli. Potresti essere tifoso del Real Madrid o dell’Arsenal, non cambierebbe granché. Eppure.
Eppure c’è una partita, una sola, in tutto l’anno in cui essere juventino a Napoli significa di più. È quando la tua Juve viene a giocare nella tua Napoli. Sai già, da mesi, che quella sarà una domenica difficile. Qualunque sia il campionato che le due squadre stanno conducendo, qualunque sia la distanza di punti tra le due, tu sai che quella è “la” partita.
E vivi un conflitto con te stesso. Non capita facilmente che la tua squadra giochi a pochi chilometri da te. E tu sai che non andrai a vederla, sai già che non ce la farai a stare lì, in silenzio, qualunque cosa accada. È come andare all’appuntamento con la donna che ami e non poterle esprimere i tuoi sentimenti. E, allora, decidi di vederla in televisione.
Così, domenica sera.
La telefonata di Michele arriva, puntuale, un paio di ore prima della gara. “Ci siamo per stasera?” chiede. È una specie di rito scaramantico al quale sai che non potresti mai rinunciare. “Come no” rispondi distratto. Ma dentro di te sai che in quei 90 minuti ti piacerebbe fare tutt’altro. Potresti portare i bambini al lago, se non facesse freddo, e se solo ci fosse un lago, uno solo, nella tua città… il cinema, perché no, si potrebbe andare al cinema… magari rimanere in casa, se ci pensi c’è ancora da togliere l’albero di Natale, poi magari alle 10 e mezzo accendi la televisione, televideo, pagina 220 o giù di lì, 90 minuti raccontati in una immagine, in un secondo. Poi.
Poi all’orario della partita, quasi di istinto, prendi le chiavi della macchina, saluti ed esci di casa. Ma lentamente, come se una parte di te fosse ancora indecisa, come se fosse una zavorra che ti appesantisce. Fai le scale mentre senti nelle altre case gente che si prepara alla partita, sedie che si spostano, commenti alle formazioni, quello del sesto piano che sta pagando le pizze al ragazzo in ciclomotore col bauletto dietro.
La città è deserta e tu pensi che è bella così, quasi ti dispiace dover andare a casa di Gianluca a vedere la partita. Potresti goderti la città, è tutta tua. È bellissima, pensi, senza i motorini impazziti, pedoni senza regole, la senti tua. Non eri mai stato geloso di un posto come ora. Ti piacerebbe fermare le lancette dell’orologio, o spostarle avanti, verso le undici di stasera.
Sul display del telefono il nome di Michele lampeggia mentre stai cercando un posto per la macchina. Sai già che cosa vuole, “Che fine hai fatto?” ti chiederà. E se invece volesse annunciarti un gol della Juve? In quel momento ti rendi conto che non hai nemmeno acceso l’autoradio per sentire la partita. Parcheggi, scendi dalla macchina, premi il pulsante delle sicure, ancora Michele sul cellulare, “Sto arrivando!” gli rispondi senza farlo parlare, fai alcuni passi, stai per imboccare il viale che porta a casa di Gianluca. Quando.
Quando, improvvisamente, tutto intorno a te, ma tutto proprio, anche le pietre, i lampioni, le macchine, cose alle quali stupidamente prima di quel momento non avevi dato la possibilità che avessero un’anima, cominciano ad urlare. È un urlo che sale improvviso, lo senti arrivare come un’onda, compatto, uniforme. Un urlo che sembra nascere dalle viscere della terra. Tu sai che in quel momento, in quel preciso istante, sta per cominciare una settimana difficile per te, fatta di sms, telefonate, messaggi su facebook. Senti, dentro di te, di amare come non mai quella maglia, anche se ti mette in quelle condizioni. Bussi al citofono di Gianluca.
E capisci che essere juventini a Napoli è una missione. È uno stato dell’anima.