GallianiIl 30 giugno 1992, l’attaccante del Torino, Gianluigi Lentini, passa dopo serratissima trattativa al Milan, con la Juventus battuta sul filo di lana. Ma circolano voci strane e si vocifera che Lentini fosse stato venduto al Milan già a marzo. Le insinuazioni, che man mano si fanno più concrete, vengono accompagnate dalle consuete smentite di via Turati. Dopo qualche giorno, alcuni giornali pubblicano i termini economici dell’affare: complessivamente, l’acquisto del calciatore sarebbe costato l’astronomica cifra di 60 miliardi di lire. Alla notizia le reazioni dell’ambiente pedatorio sono tra il meravigliato e lo sdegnato, con velati attacchi da parte di certa stampa moralizzatrice. La società rossonera, per bocca di Adriano Galliani, rende nota la sua versione dei fatti in un comunicato che è la summa perfecta dello stile-Milan. Negare l’evidenza e cercare di tirar dentro anche altre squadre:

L’unica cosa che voglio dire è che le cifre che abbiamo letto sui giornali sono molto lontane dal vero. Non esiste al mondo che il mercato del Milan sia immorale, come è stato detto. Siamo nei regolamenti (incredibile la faccia tosta, nda). Abbiamo concluso un’operazione di mercato molto importante senza costringere con la forza né il giocatore né il presidente del Torino. Vi ricordo che qualcun altro ha pagato, per un giocatore di cinque anni più vecchio di Lentini, cifre superiori.

Il calciatore di «cinque anni più vecchio» è Gianluca Vialli, appena passato alla Juventus, chiamato in causa da Galliani per mascherare la sua malefatta. Ma la bugia è doppia: il passaggio del blucerchiato in bianconero è costato circa 40 miliardi lordi tra acquisto ed ingaggio, quindi molto meno dei denari elargiti per Lentini; inoltre Galliani si picca di precisare che le cifre lette sui giornali «sono molto lontane dal vero», affermando che l’esborso ammonta a 14 miliardi, più altri 13,2 per l’ingaggio quadriennale (di nuovo mettendo in mezzo altre società, le quali avrebbero osato offrire cifre superiori: 25 miliardi l’Inter, addirittura 28 miliardi la Juventus). Ma, come stiamo per vedere, la realtà è molto diversa, e sta per venire a galla.
Il presidente granata Gianmauro Borsano (che di lì a poco cederà il Torino a Goveani) è in gravi difficoltà economiche con la Gima, la finanziaria a capo delle sue società. Borsano aveva cercato di rifugiarsi nelle pieghe dell’immunità parlamentare, facendosi eleggere deputato nelle file del Psi craxiano. Ma l’abile mossa si era rivelata insufficiente: la crisi del Psi e lo scandalo Tangentopoli travolgono tutto e Borsano ne viene coinvolto. L’accusa è di bancarotta fraudolenta e di truffa allo Stato per il mancato versamento dell’IVA.
Le indagini portano, l’11 ottobre 1993, allo scoppio dello scandalo “Piedi Puliti”. Borsano viene chiamato a deporre l’8 novembre. Gli viene contestato il reato di falsa fatturazione e falsa comunicazione in bilancio relativamente alla compravendita di calciatori per il Torino Calcio, con particolare riferimento all’affare Lentini. Berlusconi comincia a sentire puzza di bruciato e si affretta a negare tutto con la consueta sfacciataggine: «Galliani mi ha rassicurato e garantito che la situazione è chiara. Escludo che esistano fatti non alla luce del sole: per Lentini abbiamo pagato un prezzo elevato, 14 miliardi poi saliti a 18 e mezzo, solo in seguito alla concorrenza di un’altra società (tirare in ballo gli altri sempre…, nda). Ci hanno criticato per questo affare ma ricorderete tutti la mia perplessità sul prezzo (francamente no, nda)».
Borsano, che sente odore di condanna, spera di ottenere una pena ammorbidita vuotando il sacco davanti ai giudici: le dichiarazioni sono clamorose e confermano i sospetti dell’anno precedente. Non solo il presidente granata aveva ricevuto denaro in nero, ma la trattativa era cominciata a marzo, cioè molto prima dell’apertura del mercato ufficiale:

Raggiungemmo l’accordo per la vendita di Lentini a 14 miliardi e mezzo, e si stabilì che Galliani versasse subito un anticipo di 4 miliardi, ovviamente in nero, perché il contratto non poteva essere ancora ufficializzato e perché la somma mi serviva in nero per pagare, tra l’altro, sempre in nero, i premi ai giocatori del Torino.
Il calciatore però non ha intenzione di andare al Milan (“io preferivo andare alla Juve perché sarei rimasto nella città di Torino”) così Borsano e Galliani decidono di ridiscutere l’accordo: Il “bianco” passò così da 14 miliardi e mezzo a 18 miliardi e mezzo; il “nero” da 4 a 6 miliardi e mezzo, o forse a 8 e mezzo, non ricordo bene.


Si scopre che i circa 7 miliardi extra sono stati pagati dal Milan con queste modalità: 1,5 miliardi con dei Cct e 5 miliardi con un versamento effettuato da una banca del Liechtestein su un conto di Borsano alla filiale di Lugano della Banca Popolare di Novara. L’affare è sporco, talmente sporco che non si cerca nemmeno di coprire l’esborso con fatture di comodo come nel caso del falso in bilancio e dei fondi neri ai calciatori: i soldi per Borsano sono stati infatti versati direttamente senza alcuna giustificazione. L’anticipo dei tempi rispetto al periodo consentito per le trattative di mercato è testimoniato dallo stesso Lentini che dichiara:

A un certo punto i dirigenti del Torino, mi pare nel mese di maggio, mi hanno comunicato di avermi venduto al Milan […] Per convincermi a firmare, quelli del Milan non mi hanno detto niente di particolare. Mi dicevano che il Torino mi aveva già ceduto a loro, e che quindi il mio trasferimento al Milan sarebbe stato più semplice, perché fra Torino e Juventus non c’era niente di scritto (e meno male…, nda) […] Posso dire che quando esponenti del Milan sono venuti a contattarmi, nel maggio 1992, mi hanno detto che era già stato sottoscritto un accordo tra le due società.

Il calciatore, davanti al giudice, fa direttamente i nomi dell’amministratore delegato Galliani e del presidente Berlusconi:

Nel corso delle trattative ho incontrato Galliani, e una volta Silvio Berlusconi quando mandò a prendermi con un elicottero. In elicottero mi portarono a Arcore: Berlusconi voleva sapere perché non volevo andare al Milan. Io gli spiegai il mio punto di vista. Io gli spiegai il mio punto di vista, e Berlusconi mi disse che esisteva già un accordo fra Torino e Milan.

Ma emerge un fatto ancora più grave: in vista dell’esborso illegale, il Milan ha chiesto una garanzia a Borsano in modo che, nel caso l’affare fosse saltato, il presidente del Torino si trovasse costretto a restituire i miliardi ricevuti in anticipo. A copertura, Borsano propone in pegno le azioni della Gima ma Galliani e Berlusconi rifiutano, pretendendo in cambio quelle del Torino Calcio:

Le azioni del Torino Calcio, nella misura della maggioranza, furono depositate in pegno presso un notaio di Milano, scelto da Galliani. Io mi recai da questo notaio, di cui ora non ricordo il nome. La mancanza di azioni in mano mia è attestata dal mancato deposito delle azioni presso la sede sociale prima di un’assemblea. Dal notaio venne redatta una scrittura, non so se a scriverla fu il notaio, o Galliani, o l’avvocato Cantamessa (sempre lui, nda) che era con noi presente. Questa scrittura dava atto del deposito delle azioni. Ma quella scrittura faceva le veci della garanzia reale. Forse, anzi, era proprio una procura a scrivere il pegno sulle azioni. L’episodio avvenne, se ben ricordo, nel marzo 1992. Presenti alla riunione furono Morimondo, Cantamessa e Galliani. (Durante il processo, alla richiesta di spiegare queste affermazioni di Borsano, Galliani si è avvalso della facoltà di non rispondere, nda)

Quindi, per quasi metà campionato 1991/92 Berlusconi è padrone di due squadre, fatto che per la giustizia sportiva costituisce grave illecito e che dovrebbe portare alla revoca dello scudetto e alla retrocessione in serie B. Specchio di questa situazione anomala, che tutti avevano subodorato ma che nessuno aveva osato mettere in discussione, è il patetico pareggio per 2-2 tra Torino e Milan, le “due squadre” berlusconiane, che si affrontano il 25 aprile 1992. Padovan, sul Corriere dello Sport del giorno seguente scrive: «Quella che è stata spacciata per una partita di calcio, era invece un allenamento o una prova generale o un fastidioso inghippo da rimuovere».
Nei primi mesi del 1994 la magistratura rende note le reali dimensioni dell’affare Lentini: al Torino sono andati 18,5 miliardi (più i 6 in nero precedentemente versati), mentre al giocatore sono stati concessi 8 miliardi lordi all’anno per 4 anni più un’una tantum di 5 miliardi netti. Una follia.
Inoltre, si scopre che in Lega erano stati depositati due contratti: il primo, che accorda 4 miliardi a stagione al giocatore, è stato misteriosamente sostituito con un altro, dove lo stipendio scende a 1,5. La riduzione, stranamente accettata da Lentini, si spiegherebbe con il versamento in nero della differenza. Qualche giornale comincia timidamente a risollevare la questione ma, con il Milan lanciato verso lo scudetto e Berlusconi impegnato ad organizzare il suo ingresso in politica, non ci si può esporre più di tanto. Galliani interviene immediatamente, utilizzando per la prima volta la scusa che diventerà poi la colonna portante dell’apparato politico del Cavaliere: «è un attacco elettorale contro Berlusconi». Immediatamente tutti i calciatori del Milan si allineano alla versione ufficiale della società, con l’intento di difendere la “discesa in campo” del loro Presidente.

Passano quattro interminabili anni finché, nel maggio 1998, vengono rinviati a giudizio Berlusconi, Galliani e l’avvocato Berruti che aveva seguito con loro la trattativa. Il processo avanza con scandalosa lentezza fino a quando, a metà 2001, il secondo governo Berlusconi riesce a far passare la famigerata legge sul falso in bilancio, la quale permette alla nomenklatura milanista di farla franca per l’ennesima volta: il reato non è punibile per sopraggiunta prescrizione. La giustizia sportiva finge di non capire (era stata aperta un’inchiesta farsa nel luglio ’92, durata tre mesi, che aveva prosciolto tutti): lo scudetto 1992, conquistato a suon di fondi neri, omaggi pecuniari ai calciatori, maquillage di bilanci e trattative di mercato fuori tempo consentito, è regolare.
L’assoluzione completa degli imputati arriva il 5 novembre 2002. La notizia è accompagnata da polemiche che però trovano pochissimo spazio sui media del Biscione. Leggiamo da Repubblica di quel giorno:

Oggi la seconda sezione penale del Tribunale di Milano ha respinto l'eccezione di legittimità costituzionale della legge del falso in bilancio, avanzata, come in altri processi, dal pm Gherardo Colombo. Secondo i giudici infatti né la Corte di Giustizia europea né la Corte Costituzionale possono riscrivere le leggi penali. […]
Secondo indiscrezioni la procura della Repubblica di Milano sarebbe orientata a impugnare la sentenza: questa sezione del tribunale è stata finora l'unica a contrastare la linea dei pm che, nei vari processi che riguardano il premier o persone a lui vicine, avevano finora ottenuto dai collegi giudicanti l'invio degli atti all'Unione Europea con la richiesta di dichiarare la nuova legge italiana contraria ai principi comunitari.


La Procura di Milano valuta realmente la presentazione del ricorso ma deve arrendersi senza poter fare nulla. È il 13 dicembre 2005 quando il caso Lentini, 13 anni dopo il suo inizio, trova definitiva conclusione. A comunicare la chiusura della vicenda provvede un freddo lancio dell’agenzia Adnkronos:

Milano, 13 dic. 2005 - La Procura generale ha rinunciato all'appello nell'ambito del processo avviato sulla compravendita del giocatore Gianluigi Lentini del Milan. E per Silvio Berlusconi rimane il verdetto di prescrizione disposto dal tribunale al termine del processo di primo grado. Nell'ambito di questo procedimento il presidente del Consiglio era stato accusato di falso in bilancio per l'acquisto, appunto, del giocatore del Milan di cui il leader di Forza Italia era presidente. Al termine del processo di primo grado l'accusa, rappresentata in aula dal pm Gherardo Colombo, aveva presentato appello. Ma la nuova legge sul falso in bilancio ha portato la Procura generale a rinunciare al processo. Così questa mattina il sostituto pg ha formalmente dichiarato in aula questa intenzione e per i giudici della Corte d'appello non è rimasto che dichiarare la validità del verdetto dei colleghi in primo grado.