La lezione (bendata) del Siviglia

Alla fine l'ha vinta il Siviglia. Una piccola grande impresa, un inno di gioia - certamente accompagnato da abbondanti travasi di cornucopia - che per noialtri ha un suono blandamente trionfale (in fondo non è una Champions) quanto puntualmente ammonitorio: le coppe si possono giocare fino in fondo - e vincere - anche senza disporre di generazioni di fenomeni o senza essere degli intoccabili mammasantissima. Funziona così, un po' come la sveglia in caserma o la suoneria mentre fai l'amore. Sognavi, ed ecco la realtà. C'è da prenderne atto e magari tirarci fuori qualche cosa di buono.
 
Per chi non la sa, ecco la storia: il Siviglia accede all'Europa League nonostante il nono (9°!) posto nella Liga, grazie all'esclusione di Malaga e Rayo Vallecano, finiti davanti in classifica ma costretti ad abdicare per problemi economici. Il 1° agosto 2013, mentre l'Italia ha il sapore del sale e i pomeriggi sono azzurri e lunghi, la compagine spagnola gioca un ignoto terzo turno preliminare, pedalando la prima tappa di un percorso che si concluderà dopo 19 partite (19!) allo Juventus Stadium di Torino. Nel mezzo un poderoso Grand Guignol di sofferenze, che manda per ben tre volte in scena un classico del repertorio europeo: la rimonta, o remontada che dir si voglia. La prima contro i cugini del Betis (vittoria in trasferta ai rigori dopo aver perduto in casa), la seconda contro il Porto, la terza, miracolistica, con i connazionali del Valencia. All'andata per gli andalusi un due a zero a favore, con l'annesso sgarbo di una rete in vistosissimo fuorigioco. Al ritorno, dopo aver subito per tutta la partita, il gol della qualificazione arriva all'ultimo rintocco, grazie al camerunese M'Bia, eroico e inaspettato milite ignoto del fútbol iberico. In finale, senza i favori del pronostico e giocando una partita inferiore in termini di qualità e occasioni rispetto agli avversari del Benfica, i nostri vincono alla lotteria dei penalty e festeggiano la terza Europa League della loro storia.
 
Ora, per dirla sincera come il pane e salame: il peso che può avere la fortuna in competizioni come queste è evidentissimo, ma (al netto della maledizione Guttman) è altrettanto evidente che, sorte o non sorte, molto spesso le finali vengono vinte da chi "se la sente" di più, da chi ha la testa più sgombra e, probabilmente, da chi ha la consapevolezza che - comunque vada - ha gettato gamba, cuore, testa e gomiti oltre l'ostacolo, senza aver dato aria a soggettivissime dietrologie o assecondato titubanze di questo o quel genere.
La Fortuna (e la metto maiuscola), inoltre, pare spesso premiare gli audaci o, per amor di precisione, quelli che l'audacia se la portano dentro come il primo bacio, quelli che dell'imprudenza han fatto inconsciamente stile di vita, piuttosto che occasionale e conveniente sella da cavalcare. All'inverso, la Dea di cui sopra non sembra, nonostante la benda, vedere di buon occhio chi mette mille condizioni o chi fa infiniti ragionamenti su cosa deve accadere e su quali condizioni devono essere rispettate affinché vada tutto per il verso giusto. In termini calcistici: in un campionato nazionale si può speculare, si può ragionare, si può calcolare, in una competizione continentale ad eliminazione diretta, no. Assolutamente no. Si gioca, si dà il massimo e, se non si vince, si ha comunque la consapevolezza di averci provato senza essersi risparmiati. E se l'avversario è stato più forte, beh gli si fanno i complimenti. Ma, importante e fondamentalissimo distinguo, il tempo delle congratulazioni e degli abbracci arriva solo alla fine, dopo aver giocato, dopo averci provato con ogni mezzo.
 
Vado al sodo, perché lo so che ormai avete capito dove sto andando a parare. Senza passare dal via: caro Antonio Conte, che eri presente nel nostro stadio a vedere la finale di EL, per favore, prendi questa lezione e fanne tesoro. Sei bravo, molto bravo, ma ovvietà delle ovvietà, non sei perfetto. Inoltre, se per caso eri alla ricerca di qualche bella esperienza europea, ecco che stasera ne hai avuta una decisamente succosa. Prima si gioca, si combatte, ci si misura, si dà tutto quello che si ha da dare e poi, assolutamente e rigorosamente poi, si fanno tutte le considerazioni del caso. Vedi, ti concedo anche di lamentarti, di articolare nobilissime dissertazioni su fatturati, rose inadeguate, spaventevoli e imprescindibili ranking di nobiltà da scalare. Ti concedo ciò che vuoi, ma fallo dopo, solo ed esclusivamente dopo. Dopo aver giocato e dopo aver dimostrato "sul campo" (ricorda niente?) che noi siamo la Juve, non un Siviglia qualsiasi, con tutto il rispetto di chi, a questo punto, può vantare tre coppe Uefa/Europa League, esattamente come noi.
 
Quindi, caro Mister, rimani qui e accetta questa sfida. Di vincere, in Europa, non è mai sicuro nessuno, nemmeno chi ha i super campioni che tu - come chiunque altro - sogni di avere in rosa. E non saremo noi tifosi a chiederti di farlo, di certo non con quel tono minacciosamente esigente che sembra terrorizzarti tanto. Semmai ti chiediamo di provarci al pari degli altri, ti chiediamo di abbandonare la paura, di utilizzare il tuo entusiasmo, la tua voglia e la tua competenza per riportare la Juventus a una vecchia/nuova dimensione europea e non per trovare nuovi e originalissimi modi di mettere le mani avanti. Di chiacchiere, dubbi, supposizioni e incertezze ne abbiamo già avute in abbondanza. Spero, orgoglio permettendo, tu possa ripartire da qui e da queste, ispiratissime, parole:
 
"L'anima juventina è un complesso modo di sentire, un impasto di sentimenti, di educazione, di bohémien, di allegria e di affetto, di fede alla nostra volontà di esistere e continuamente migliorare"
(E.Canfari)
 
Continuamente migliorare. Continuamente migliorare. Cosa vuoi di più dalla vita?
 
P.S. per il lettore: i meriti di Conte Antonio in campionato sono fuori discussione. Si parla di migliorare (non di vincere a tutti i costi), esattamente ed esclusivamente laddove ci serve: in Europa.