Lo scudetto di Cinesinho

cinesinho

Per onorare il ricordo di un campione bianconero del passato, scomparso il 16 aprile scorso, pubblichiamo questo bel ricordo dell'amico Emanuele.

E’ da stamattina, da quando ho letto della morte di Cinesinho, che ripenso a quel 1° giugno 1967 e rivivo sensazioni che pensavo di aver dimenticato e che invece sono tornate alla mente nitide, precise alla faccia dei 44 anni trascorsi.
Avete mai pensato al fatto o ai fatti che un giorno vi hanno portato a tifare bianconero e al fatto o ai fatti che hanno cementato questa passione? Qual è stato il vostro imprinting, per usare un termine scientifico, cosa vi ha portato a riconoscere in quei colori una cosa a voi cara e irrinunciabile ? E’ chiaro che le vittorie contano, soprattutto da bambini, ma sicuramente altre cose entrano in gioco: i genitori (generalmente il padre), i parenti, una particolare esperienza vissuta, ecc. Il mio imprinting come ho già detto l’ho avuto, quel primo giugno (non ricordo se era mercoledì o giovedì). Avevo 7 anni, non ero malato di calcio ma non nascondo che iniziavo ad affascinarmi alla favola del Cagliari di Gigi Riva che seguivo con una certa passione. Rivedo il film di quel giorno.

E' l’ultima giornata di campionato, la Juve è in rimonta su un'Inter in crisi che una settimana prima era pronta al triplete e una settimana dopo si ritroverà senza nulla in mano venendo eliminata dal Padova in semifinale di Coppa Italia. Un amico torinese di mio padre rimedia tre biglietti per Juventus-Lazio e mio padre, vincendo le resistenze di mamma, decide di andare e di portarmi con lui, considerato il fatto che il 2 giugno è festa e quindi possiamo ritornare con tutta calma.
In cuor suo sentiva e sperava che sarebbe accaduto qualcosa di bello. Abitavamo in campagna, a ridosso della centrale nucleare di Borgo Sabotino dove papà lavorava dalla sua apertura, non avevo mai visto nemmeno Roma e partivo per Torino, città che quando parlavo con i compagni di classe era, con Milano, sinonimo di distanza abissale (ti do una sberla e ti mando a Torino o a Milano, i più forti ti mandavano in America).
Partiamo alle 15 del 31 maggio con la gloriosa seicento e due taniche di acqua in macchina per ovviare alla grande sete che aveva quella macchina. Facciamo il pieno di benzina, tassativamente Supercortemaggiore, la potente benzina italiana, si saluta la mamma e via, si parte, verso l’infinito e oltre. A Santa Marinella le due taniche di acqua sono già vuote (ogni 60-70 km c’era da riempire il radiatore) e così, con soste studiate lungo l’Aurelia in prossimità dei fontanili, e soste per brevi pisolini del guidatore e rifocillamenti di panini e caffè nel thermos rosso che mamma ci ha preparato, alle 10 del giorno dopo facciamo il nostro ingresso nella metropoli. Io, che dormivo rannicchiato dietro, vengo svegliato da mio padre che mi dice di alzarmi e guardare la città. L’impatto è traumatico: mai visto tanto tutto insieme, fili sulle strade, palazzi altissimi e soprattutto il dialetto (o meglio i dialetti). Entriamo in un bar per la colazione e mi sembra di essere all’estero, tanto che chiedo a mio padre se quella gente sia italiana. Arriviamo a casa dell’amico e della sua gentile signora (una giovane signora di città, con i capelli lunghi e neri che mi sembrò bellissima e molto diversa dalle donne che avevo visto fino ad allora), una lavata. un frugale pranzo e via verso lo stadio.
L’amico abitava in Largo Orbassano (ci sono ripassato un paio di anni fa, è cambiato tutto e lui comunque non abita più lì), non lontano dallo stadio e quindi ci avviamo a piedi e, man mano che ci avviciniamo il rumore dello stadio si fa più forte fintanto che, entrati, rimango senza fiato: mai viste tante persone tutte insieme, in una babele di dialetti che non capisco, una cosa da restare senza fiato. Papà mi compra una bandierina di plastica, con un fischietto rosso piantato sull’asta, che si perde vicino ai grandi bandieroni che sventolano a fianco a me. E a questo punto i ricordi perdono di lucidità, perché vengo rapito e letteralmente ubriacato da quell’atmosfera.
Ricordo solamente che stavo attaccato a mio padre perché avevo paura di perderlo in quella bolgia.
A un certo punto lo stadio sembra tremare, tutti iniziano ad urlare e mio padre mi dice che che l’Inter sta perdendo. La Juve vince poi con i goal di Bercellino e Zigoni e alla fine della partita mi ritrovo in campo spinto dalla folla. Mio padre fa appena in tempo a dirmi di fermarmi a centrocampo che mi raggiungerà lì e poi non lo vedo più: spaventato da quella folla, corro piangendo e mi fermo sul disco del centrocampo. Mi passa vicino Anzolin, il portiere, senza maglietta: contrariamente ai suoi compagni sta rientrando negli spogliatoi camminando lentamente e, vedendomi piangere, mi accarezza i capelli e mi dice: “Sei felice eh?” Dopo qualche minuto mio padre mi raggiunge e a quel punto, tranquillizzato, mi godo lo spettacolo dalle sue spalle.
Il ritorno a casa è gioioso. La bandierina che ogni tanto tiravo fuori dal finestrino, scollatasi dall’asta, vola lungo l’Aurelia e all’arrivo a casa passo ore ed ore a raccontare a mamma quell’avventura.

Con un’esperienza del genere dimenticai la simpatia per il Cagliari, avevo avuto l’imprinting ed ero ufficialmente juventino a tutti gli effetti.
Grazie Cinesinho, se sono juventino è anche per merito tuo.