Olanda, da "Arancia meccanica" ai nostri tempi

L'Olanda, un Paese grande quanto il Veneto e la Lombardia, è probabilmente lo stato più piccolo fra quelli che hanno profondamente segnato la storia del calcio.
Un pezzetto di terra strappata al mare "incastrato" fra il Belgio e la Germania, eppure un Paese così importante per lo sport più amato al Mondo.
Tutto ebbe inizio nella seconda metà degli anni Sessanta, per esplodere definitivamente ai tempi della Summer of Love: sono gli anni in cui sorge e si afferma la stella di Hendrik Johannes Cruijff, nato a due passi dallo stadio dell'Ajax, il vecchio "De Meer", e predestinato a diventare una leggenda sin dai primi anni di carriera nonostante un fisico gracile e una caviglia che le cronache definiscono "sformata".
Marinus Jacobus Hendricus Michels, semplicemente noto come "Rinus" Michels, ex attaccante ajacide passato al ruolo di allenatore dei lancieri, è l'altra figura chiave del movimento calcistico oranje: è lui a condurre il club del ghetto ebraico di Amsterdam fuori dalle paludi della zona retrocessione nel 1965, ed è sempre lui a costruire e plasmare il gruppo che dominerà il calcio europeo a livello di club arrivando - con la divisa della Nazionale - a sfiorare il titolo Mondiale.
L'Arancia Meccanica condivide con l'Aranycsapat (la squadra d'oro) ungherese degli anni Cinquanta il poco invidiabile primato di essere uscita sconfitta, contro ogni pronostico, in una finale Mondiale.
E che in entrambi i casi la sconfitta del grande favorito sia avvenuta per mano della Germania Ovest potrebbe non essere un caso.
Ma se per la Grande Ungheria la finale di Berna fu il canto del cigno della cosiddetta "scuola danubiana", con i talenti magiari in fuga dal blocco sovietico verso l'Occidente, la sconfitta olandese di Monaco 1974 non ha fatto altro che alimentare la leggenda di una squadra irripetibile, una formazione perfetta che ha nobilitato il calcio dell'epoca ma che, contemporaneamente, ha dato vita ad innumerevoli equivoci e rovinato le carriere di tanti calciatori e allenatori abbagliati dal cosiddetto "calcio totale".
Quanti ingenui hanno creduto di poter riproporre il modello olandese semplicemente copiando i movimenti di Krol, Neeskens, Cruijff, Haan, Van Hanegem, Rensenbrink; quanti pensavano di ottenere gli stessi risultati adottando la tattica del fuorigioco, il pressing, il possesso palla e la zona esasperata...
Il grande inganno del fenomeno olandese, portato avanti dai club (Ajax e Feyenoord cui, verso la fine degli anni Settanta, si aggiunse il PSV) ed esaltato dalla Nazionale, fu quello di far credere a molti che il vero segreto stesse nell'atteggiamento tattico e non negli interpreti.
Erano grossi, gli olandesi, e portavano i capelli alla moda degli hippies, e lo stile di vita che conducevano (i ritiri "aperti" a mogli, fidanzate, le molte sigarette e qualche bottiglia di troppo...) li rese vere icone del loro tempo.
Ma questi personaggi un po' naïf non erano dei semplici atleti, erano superatleti con qualità non comuni per lo stereotipo del calciatore di quei tempi.
Ma a differenza del classico centravanti o del classico difensore centrale di stampo britannico - statici, impavidi e pronti ad ingaggiare una guerra fisica contro l'avversario per 90 minuti -, gli oranje erano fisicamente dominanti ma insolitamente agili e tecnicamente dotati sopra la media.
Gli anni Settanta, indipendentemente da quel che dicono gli albi d'oro delle competizioni per Nazionali, sono indelebilmente segnati dal colore arancione, dato che l'influenza esercitata da quel movimento si è spinta fino ai giorni nostri, alla filosofia che Cruijff impose al Barcellona venticinque anni fa e che sostanzialmente è la linea guida di tutto quello che riguarda il club catalano, dalla Masia alla prima squadra.
Ma sarebbe riduttivo fermare l'orologio della rivoluzione oranje all'epoca del rock progressivo e della disco music perché, dopo un doveroso ricambio e alcuni fallimenti (tipo la mancata qualificazione a due Mondiali, quelli disputati negli anni Ottanta), nel 1988 la Nazionale olandese ottenne il primo ed unico successo in una grande manifestazione internazionale, il Campionato d'Europa.
Alla guida c'era ancora Rinus Michels, e la sorte rese ai nipotini di Cruijff, che allora si chiamavano Van Basten, Gullit, Rijkaard, Koeman, Van Breukelen, Winter e Vanenburg, quel credito accumulato dai "nonni" che tante amarezze avevano raccolto in passato.
Curiosamente l'Olanda alzò il trofeo nello stesso stadio in cui era maturata la Grande Delusione di 14 anni prima, con un gol pazzesco di Van Basten (e pensare che ad inizio torneo il "cigno di Utrecht" partì riserva di Johnny Bosman), in precedenza giustiziere dell'Inghilterra e, soprattutto, autore del gol allo scadere (quello, del 2-1) contro i tedeschi (guarda un po'...) padroni di casa.
Anche in questo caso l'ascesa della selezione Nazionale andò di pari passo con il ritorno a livelli di assoluta competitività dei club: oltre all'immancabile Ajax (che vinse la Coppa delle Coppe nel 1987 e fu finalista l'anno dopo contro una sorpresa belga piena di olandesi: il Malines) il ruolo di squadra guida del movimento toccò al PSV Eindhoven fresco campione d'Europa.
Dopo il successo europeo, l'Olanda si candidò per un ruolo da protagonista al Mondiale italiano del 1990, ma il ct Beenhakker fallì e richiamare Michels apparve la mossa più logica per la federazione olandese.
Tuttavia, nemmeno il grande Rinus poté nulla contro il destino, che nella semifinale dell'Europeo 1992 si schierò totalmente dalla parte dei danesi.
Fu quello il passo d'addio di un'altra generazione di fenomeni, la prima fortemente "contaminata" dalla massiccia presenza di atleti originari delle colonie caraibiche; ma all'orizzonte già si intravedeva una nuova nidiata di talenti cresciuti da un signore che in questi giorni (ventidue anni dopo quella ribalta) ha assunto l'incarico di nuovo allenatore del Manchester United.
Bergkamp, i fratelli De Boer, Davids, Seedorf, Kluivert, il portiere Van der Sar, Overmars, Stam, Zenden, Cocu sono i nomi dei protagonisti dell'ultima epoca d'oro del calcio olandese, l'ultima sfornata di talenti che ha portato il football oranje a dettare legge in Europa e a tornare un modello di riferimento.
Il resto è l'Europeo casalingo del 2000, con una finale sfumata dopo una partita assurdamente dominata - e persa ai rigori - contro l'Italia di Zoff, e la finale Mondiale del 2010, quando un'Olanda in stato di grazia, ma talentuosa la metà rispetto a quelle che caratterizzarono il passato glorioso della Nazionale arancione, arrivò ad un soffio dal primo titolo iridato; però, come già accaduto due volte in passato, il destino voltò le spalle a Sneijder, Robben e Van Persie.
Il paradosso di un movimento che ha tracciato un solco fondamentale negli ultimi 50 anni di calcio è proprio quello di aver insegnato a molti come vincere, possibilmente giocando bene, senza essere stato in grado di trarne il giusto vantaggio in termini di palmarès.