Emanuele Giaccherini - Mio piccolo amico

Campionario - Carico e scarico di calciatori che malgrado tutto non dimenticheremo mai

In una faticosa serata agostana, bramoso di calcio, annoiato di vita, mi sono trovato incastrato, letteralmente, in un tavolo di plastica, costretto ad ascoltare uno juventino. Uno di quelli che si affeziona presto ai giocatori, uno di quelli che speri per il loro bene non comincino mai ad andare a prostitute. Piangeva, lo avete capito, la dipartita di Giaccherini. Incapace di consolarlo, mi sono trovato a dire che "i Giaccherini vanno e vengono".

Una banalità che fortunatamente ha ammazzato la discussione ma mi ha fatto sentire insulsamente cinico e dozzinale. Tutti sappiamo che un panchinaro non è per sempre. Dura qualche stagione e poi gli viene voglia di giocare (a patto, ovvio, che gli venga offerto uno stipendio congruo). Una volta, magari, succedeva. Birindelli ha lasciato Torino, dopo dieci anni, con le piaghe da decubito. Ma oggi? Oggi, complici anche i procuratori, i giocatori normali cambiano casa molto spesso. Lo sanno tutti.
Vergognatomi dell'ovvietà pronunciata, ho provato a pensare se magari, involontariamente, non avessi detto qualcosa di intelligente. Ci provo spesso, lavoro sull'autostima.

Avevo effettivamente detto qualcosa di ragionevole, ma in tutt'altro senso, il senso doppio. Giaccherini è il giocatore sullo scooter, quello che effettivamente va e viene, il postino, il pony express. Il giocatore che viaggia da area ad area per consegnare palla dai piedi di quelli scarsi ai piedi di quelli bravi. E poi, un'altra volta. Lavoraccio. Nonostante le gambette corte, arriva sempre puntuale, prima degli altri, tanto da poter essere schierato addirittura in posizione di mezz'ala, dove in genere rimbombano i passi dei bufali.
Oh Giac, postino di quel luogo antico.
Mi sono reso conto insomma di essere stato davvero insensibile, verso il mio amico e verso Antonio Conte, anch'egli disperato, ma soprattutto verso me stesso.
Il Giac, non puoi che affezionartici. Il Giac, quel bimbo che era un compagno di giochi, l'ultimo amico che piaceva anche a tua madre. Il suo mutismo forastico, l'abitudine di fare gli occhi grandi, la paura nel guardarti in faccia. Vuoi non ricordartelo? Era tuo amico, alle scuole elementari, o ancora meglio in quel paesino montano dove trascorrevi le vacanze da ragazzino, quei posti dove solo dieci anni fa si andava ancora in vacanza, e oggi invece abbandonati dai giovani. Il Giac ha la faccia di quelli che invece hanno scelto di restare, di vivere come i loro padri, che mica capiscono che ci sia di male nell'essere uno qualunque. Intorno ai quattordici anni, siete diventati troppo diversi. Tu un sacco di cose cui pensare, lui un paio ma fatte bene, il calcio e il lavoro, iniziato prestissimo.

Tu orgogliosamente postmoderno, lui accoglie la modernità per solo mezzo di una cresta e di un motorino elaborato (nella vita, invece, quella sterminata periferia che sta intorno ai campi da calcio, anche lui ha un SUV e tutto il resto). Giac è il posto in cui vive, la sua nicchia iconologica: il piccolo borgo antico. Giac, non si scrive con la kappa.
Giac gioca. Tu lo riduci a un sempliciotto, lo reputi uno senza qualità ma lui lì è più bravo di te. E più intelligente. E' il dominio dell'emisfero destro.
Quando senti che Giac va in Inghilterra, hai paura di quello che gli potrebbe succedere. Al suo ritorno, ti racconterà che, per attraversare la strada, ha guardato a destra anziché a sinistra, e quasi lo investivano. Holy fuck, Giac!
Diciamoci la verità: da quando non vi vedete più, non ti è mancato neanche un po'. Sì, hai nostalgia dell'infanzia, ma non saresti stato un uomo migliore se foste ancora amici, non credere. Non sei mica Neruda.
E' vero: quando se ne vanno, i Giaccherini non si rimpiangono, però si augura loro il meglio.

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