Claudio Marchisio - Normale è il nuovo speciale

RubricaCampionario - Carico e scarico di calciatori che malgrado tutto non dimenticheremo mai

Se Claudio Marchisio fosse un po' meno che bravo, bello e buono, sarebbe facile terminare questa trilogia del centrocampo. Trovagli un difetto, invece. Un calciatore fortissimo ed eclettico, cresciuto nel nostro settore giovanile, capace addirittura di non farci vergognare quando parla, persino in grado di dire cose intelligenti. C'è uno e un solo precedente di questo tipo nella nostra storia moderna, l'amatissimo Roberto Bettega.
Se Marchisio gioca male, e capita davvero di rado, è perché è stanco, ma se è stanco, spesso è perché si è speso troppo: per la Juventus o per la Nazionale, Marchisio non si risparmia mai, a costo di recuperare frettolosamente da un infortunio o di stringere i denti se l'infortunio è in corso. O magari, capita che giochi male perché è impiegato fuori posizione, ma questo accade perché lui accetta di buon grado la nuova mansione, senza creare problemi, con assoluta dedizione alla causa, incurante di esporsi a brutte figure. Mi sembra, insomma, che quando per lui le cose girano male questo succeda semplicemente perché Claudio è troppo buono. Una cosa, quella del buono che passa per fesso, che in Italia - e casa Juve non fa eccezione - è considerata peccato mortale.

Questa patetica inclinazione all'assoluzione plenaria cui sono solito abbandonarmi quando si discute di Marchisio sembrerebbe avere tutti i caratteri dell'idolatria.
Il motivo è semplice: mi sembra che il ragazzo sia un modello positivo. Cioè non il genere di persona cui perdoniamo benevolmente i difetti in cui ci riconosciamo, ma quello i cui pregi ci inorgogliscono e che vorremmo imitare. Intendiamoci: non voglio fare dello zanettismo, malattia infantile dell'interismo. Lo zanettismo impone che il giocatore idolatrato sia una specie di celeste guaritore, incapace di atto altro dal giusto, per questo martirizzato da forze maligne potentissime, che lui contrarresta con la verità delle sue parole e i suoi dribbling. Non qualcuno in cui riconoscersi, ma qualcuno di superiore. Un essere speciale, insomma, seppur con quello sguardo un po' così (il forte dubbio che sia un fesso che passa per buono, insomma).
Qui si tratta, guarda un po', del contrario.

Leggete questa bella intervista, rilasciata a Rivista Studio. C'è un'accanita ambizione alla normalità. Una qualità che lo rende davvero unico, in un ambiente in cui ci sono più solipsismo e narcisismo che in un raduno di bloggers. Un ragazzo figlio di un operaio della FIAT per cui tifare Juve è una tradizione familiare; spaventato, lui e la sua famiglia, da quello che il calcio può togliere a una vita normale, e poi capace di affrontarlo con equilibrio, formandosi presto una famiglia (anche se ormai solo i calciatori si sposano nei loro primi trent'anni di vita), in una costante ricerca di stabilità.
L'uomo è maturo, anzi prematuro, il giocatore è completo. Per usare il linguaggio del calcio, che in questo caso attinge alla fraseologia dei buyer dell'Esselunga, è centrocampista di quantità e qualità. Quanto corre (tantissimo) e come passa (benissimo). La velocità impressa al gioco di centrocampo palla al piede da giocatori come lui e Iniesta è una frattura rispetto al passato, paragonabile al turbo con cui il giovane Ronaldo cambiò i tempi del gioco d'attacco. Insieme al campione iberico (che è solo bravo e buono) rappresenta una nuova razza di centrocampisti, capaci con naturalezza di giocate da attaccante, specie mutante del "dieci che si fa il mazzo", affermatasi a metà decennio. Calcia rigorosamente di collo interno, come si impara a scuola: mai un tiro tanto per tirare. Il controllo di palla è da videogame, la sfera viene portata a spasso a testa alta. Il tempismo nell'effettuare gli inserimenti verso la rete ricorda il maestro Conte, i colpi sotto porta però trovano paragoni solo in una punta di mestiere.

Se si può spendere il paragone con Andrés Iniesta è evidentemente perché il giocatore è speciale e fa cose speciali; pur tuttavia, come il suo modello spagnolo, mai indulge nel personalismo né in campo né fuori. La sua creatività esplode nel contesto di un gioco essenziale, più spesso che no limitato a un solo passaggio. Quello giusto. Di indole volitiva, lottatore dai ritmi alti, non trascende mai in uno scatto d'ira, semmai di orgoglio.
In più, se non fosse questo abbastanza per guadagnarsi titolo antonomasico di antinarcisista, è pure un bel ragazzo. Non per questo un machista, però, unico calciatore italiano a esprimersi contro l'omofobia con nettezza, senza pelose distinzioni a consumo del tifoso troglodita. Non c'è in lui quell'eccessivo culto del corpo, quella incongrua estetica del gesto, che cerca di fare epica di ogni insignificante dettaglio. Nulla di quello che fa in campo, in verità, sembra essere una mera questione personale. Marchisio esulta libero dal self-branding, esulta come esulterei anch'io. Anzi, come esulto io, dal divano.

Pensando a tutto questo, ho trovato la vera ragione per cui Marchisio a volte, incredibilmente, contrariamente ad ogni logica, gioca male. Non è la stanchezza, non è la posizione. Non è perché, come sareste tentati di dire dopo il rovinoso doppio match contro il Bayern, esistono in natura giocatori più forti di lui. Non ci provate nemmeno.
Vi è mai capitato di incontrare uno di quei ragazzini prodigiosamente intelligenti che per il timore di essere esclusi dalla spietata società puberale infarciscono di errori assolutamente volontari i propri compiti in classe, con il fine di sembrare banalmente normali? Se non si tratta di voi stessi, non potete saperlo. Esistono, però: garantisco. E Marchisio è uno di loro.

Se qualche volta gioca male, è solo perché vuole essere normale.





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