Ghibellinismo bianconero

tifosiNei dibattiti che hanno accompagnato le celebrazioni del 150° anniversario dell'unità d'Italia si è, ovviamente, molto discusso dei vari aspetti della nostra identità nazionale, che ai più non appare sufficientemente salda a causa di un passato con alcune pagine ancora controverse e di un percorso frammentato a cui, in notevole ritardo rispetto ad altri grandi Paesi europei, pose fine il Risorgimento. Oltre ad esaminare le questioni storiche, politiche e culturali, si è andati quindi alla ricerca di quegli elementi di "italianità" di medio o lungo periodo che caratterizzano la vita quotidiana: cucina, spettacolo, consumi, moda e quant'altro.
Gli storici della scuola delle "Annales", già dagli anni Trenta del secolo scorso, ci hanno insegnato che, per comprendere il passato e il suo influsso sulla realtà odierna, le tematiche sociali, come quelle riguardanti i rapporti economici, ma anche quelle più "minute", come l'alimentazione e il vestiario, sono spesso illuminanti. Siamo quindi rimasti sorpresi che, discutendo di identità nazionale, non si sia trattato "seriamente" di quella che resta la più grande passione italiana: il calcio e il fenomeno del tifo che interessa, in varia misura, circa la metà della nostra popolazione. Accanto ad argomenti "seri" non avrebbe sfigurato anche un'indagine sulla composizione del tifo, magari nell'ottica della costruzione di quel "capitale sociale" - che si forma nella vita associativa, attraverso relazioni che accrescono l'integrazione e il senso di fiducia, sia individuale che comunitario - di cui da qualche decennio si occupa in particolare la sociologia nordamericana. Del resto, se il celebre politologo Robert Putnam ha identificato nel modo in cui gli statunitensi giocano a bowling, da soli o associati in gruppi di appassionati, un sintomo importante dello stato di salute dei rapporti sociali negli Usa, il calcio non vale certo meno nella vita degli europei.
A quanto ci consta, la più recente analisi di un certo rilievo degli schieramenti calcistici degli italiani rimane ancora il sondaggio pubblicato nel 2005 dalla rivista di geopolitica "Limes" in un quaderno speciale intitolato "La palla non è rotonda". Per quanto ci riguarda come juventini, quel sondaggio confermava che, come numero, siamo i primi nel Paese: il 32,4% per cento di tutti i tifosi, seguiti dal 20,4% di milanisti e dal 13% di interisti. Nella tripartizione adottata per misurare il grado di partecipazione alle sorti della propria squadra, gli juventini, ahinoi, sono però al primo posto come percentuale di tifo tiepido (30,9%), il che dovrebbe definitivamente disilludere quanti si appellano alla forza dei fantomatici "14 milioni di bianconeri" per difendere la Signora dalle ingiustizie subite nell'ambito di Farsopoli. Fra di noi c'è però anche un 39% di tifosi caldi e, soprattutto, un 30,1% di "militanti", sugli ultimi dei quali solo si può, in qualche misura, fare conto.
Gli amanti della Signora sono soprattutto "trasversali": socialmente, economicamente, politicamente. Come grado di istruzione risultano predominanti fra i tifosi di bassa scolarizzazione, ma ciò non basta certo a definirli un popolo di ignoranti (come piacerebbe a prescritti nerazzurri e affini) perché, tra loro (tra noi) la quota di possessori di titoli di studio alti e medio-alti è pressoché uguale a quella dei supporter delle due squadre milanesi. La trasversalità bianconera è particolarmente interessante dal punto di vista geografico. Il tifo bianconero, contrariamente a quello per tutte le altre squadre, è quasi equamente diviso tra le varie parti della Penisola: 31,3% al Nord-Ovest, 36,6% al Nord-Est, 28,7% al Centro, 33,4% nel Sud e nelle isole. Il Milan, la seconda squadra per seguito, ha, per esempio, più del doppio di tifosi nel Nord-Ovest (27,6%) rispetto al Centro (13%).
Considerando che gli juventini, al di fuori di Torino, non sono mai in maggioranza nelle grandi città (ma questo il sondaggio non lo specifica) risultandovi comunque i più numerosi dopo quelli delle squadre locali, si può probabilmente dedurre una forte predominanza bianconera in quelle che, prima della compiuta industrializzazione del Paese, erano chiamate le "campagne": i piccoli e medi centri circondati dai contadi, un tempo a vocazione agricola e oggi anch'essi orbitanti, a vario titolo, in un immenso terziario dall'identità sfuggente. Questa considerazione, personalmente, mi rafforza nella convinzione che una delle più significative anime dello juventinismo sia quella "strapaesana". Non si tratta di un'ipotesi sminuente dal punto di vista socio-culturale. Lo Strapaese al quale mi riferisco non è la terra del burino, rozzo e ignorante, ma l'orizzonte sentimentale e culturale dipinto dalla rivista "Il Selvaggio" di Mino Maccari che, pur ospitando alcune delle voci più importanti della letteratura italiana dei primi decenni del Novecento, esaltava la "sanità" della vita provinciale e contadina opponendola alle finzioni e all'astrattezza della realtà cittadina.
Lo juventino strapaesano è fiero delle sue radici locali, ma, allo stesso tempo, con la sua passione sportiva (una parte della sua identità personale) le trascende (e le compone insieme a quelle dei suoi "correligionari" di altre contrade) nell'amore per una squadra che è proiettata in una dimensione nazionale. Così come "i selvaggi" vantavano le proprie tradizioni paesane per metterle al sevizio di un acceso (secondo alcuni fin troppo) patriottismo, nella direzione opposta dell'odierno secessionismo regionalista. Orizzonte nazionale (l'amata Juventus) e immedesimazione nella propria realtà locale anche per i bianconeri "cittadini". Una sintesi che però risulta talvolta più difficile da sostenere. Chi scrive professa quotidianamente la sua juventinità in "partibus infidelium", ovvero a Milano, luogo particolarmente ostico per la presenza di due storiche avversarie. Come tutti i bianconeri che abitano in città con squadre di un certo spessore (presumo, in particolare, Roma e Napoli) fin dall'asilo sono solito sentirmi dare, più o meno scherzosamente, del traditore. Se va bene, mi è richiesta solo una spiegazione per la mia "fede".
Da milanese che non si vanta particolarmente di essere nato nella fu capitale morale, ma neppure lontanamente se ne vergogna, riconoscendole pregi e difetti al di fuori di ogni ottica campanilista, sono ovviamente annoiato, oltre ogni misura, dalla ripetitività di simili quesiti. Per questo, per non morire di tedio, ho provato ad abbozzare una piccola teoria storica, da prendere col sorriso sulle labbra, perché non sempre "parva licet componere magnis". L'ideuzza che mi è venuta riguarda quel periodo del Medio Evo nel quale prese forma la dicotomia tra guelfi e ghibellini. Sintetizzando grossolanamente, i primi erano favorevoli alla crescita delle autonomie dei comuni fino a renderli di fatto sovrani dal punto di vista politico e non solo amministrativo, accettando per raggiungere questi obiettivi anche l'ingombrante appoggio del Papa, mentre i loro avversari rimanevano fedeli all'idea che la potestà ultima rimanesse nelle mani dell'imperatore.
Prendiamo la vicenda del divin poeta fiorentino. Nato guelfo (ma la sua appartenenza politica era più un retaggio familiare che una convinzione politica), dopo la divisione della sua parte in due fazioni contrapposte, Dante si viene a trovare tra le file dei Bianchi sconfitti e quindi è costretto a lasciare la sua città. Nei primi tempi dell'esilio, con quelli della sua fazione, si avvicina ai ghibellini, fuoriusciti anni prima e partecipa pure ad alcuni tentativi, piuttosto maldestri per la verità, di organizzare la rivincita armata contro i Neri. Poi, disgustato da tutti i partitanti, farà "parte per se stesso", abbandonando l'impegno attivo, ma continuando a pensare la politica e a teorizzarne la sua trasformazione. Per farla breve - perché qui siamo in un sito che si occupa di calcio e non di argomenti minori - il nostro Dante, anche se non tutti critici sono d'accordo con Foscolo che lo definì addirittura "ghibellin fuggiasco", si convince della necessità di un impero universale che sia portatore di pace universale, ponendo termine alle discordie causate dalla "cupidigia" delle varie fazioni in lotta.
Era Dante diventato nemico di ogni autonomia cittadina in nome della sovranità imperiale? Se è possibile che i fiorentini non gli stessero più molto simpatici dopo che lo avevano condannato a morte in contumacia, non per questo arrivò a pensare che ai comuni dovesse essere tolta ogni libertà. Nel "De Monarchia" il poeta espone compiutamente la sua visione politica, nella quale il riconoscimento dell'autorità superiore e ordinatrice dell'impero non si contrappone all'amore per la propria patria "locale". Anche nella modernità l'idea di impero - da non confondersi con l'imperialismo che Lenin identificò come lo sfruttamento, soprattutto economico, delle grandi potenze ai danni dei Paesi colonizzati - si rivolge all'armonizzazione tra particolare e generale, tra locale e universale. Come ha scritto il politologo francese Maurice Duverger, "gli imperi sono sovranazionali. Riuniscono svariate etnie, svariate comunità, svariate culture che prima erano separate e restano sempre distinte".
Con un azzardo totale - lo riconosco - sostituisco all'impero la nazione italiana contrapposta ai mille e più campanilismi locali. Quello che io ho deciso di chiamare il ghibellinismo bianconero - in un Paese come il nostro dove le antiche passioni di fazione spiegano in parte la vitalità di un tifo calcistico molto più fazioso rispetto ad altre nazioni - rappresenta dunque l'identità juventina che si specchia in un mito più grande dell'appartenenza locale. Non a caso, la Juventus è da sempre la squadra che fornisce più giocatori alla Nazionale, mentre nell'Internazionale militano quasi esclusivamente calciatori stranieri (chissà come li avrebbe vituperati Machiavelli che si scagliava contro le milizie mercenarie straniere che avrebbero trascinato alla rovina l'Italia).
Sempre non a caso, i supporter della Juventus, secondo il sondaggio pubblicato da "Limes", si caratterizzavano meno degli altri per "tifare contro": solo il 36% degli intervistati lo definiva un fattore importante della propria appartenenza di tifo. Anche questo dato spiega come il ghibellino juventino, identificandosi in qualcosa di superiore, rifugga dagli odi di ballatoio. Il sondaggio, però, venne fatto un anno prima delle nefandezze di Farsopoli e oggi, c'è da scommetterci, gli juventini sono molto meno equanimi, in particolare verso una certa squadra che so io e, penso, anche voi. Se già vi è noto che la Juventus, e il sondaggio lo confermava, è la squadra più odiata da chi tifa contro, provate a immaginare chi sono i gufi più viscerali, quelli per i quali è talvolta meglio la sconfitta dei nemici piuttosto che la vittoria dei propri beniamini. Avete indovinato: romanisti e interisti che - guarda caso - sono anche quelli che in maggioranza credono meno alla regolarità delle competizioni, immaginando sempre l'esistenza di un complotto ai loro danni.
Bene, in modo semiserio e con ampio beneficio d'inventario, ho provato a tratteggiare l'anima profonda e le radici storiche del tifo bianconero, giungendo a ipotizzare un Alighieri proto-juventino. Capisco che la cosa possa fare schiumare di rabbia i tifosi viola, ma rimane il fatto che erano i loro antenati a volerlo bruciare in piazza. Uno di tal valore che veniva da Firenze noi, invece, l'avremmo accolto in bianconero con ancora più affetto di quanto abbiamo fatto con Roberto Baggio.