Antipatici e odiati: per dieci pessime ragioni.

marchio juve Non era morto, ne eravamo perfettamente coscienti: stava solo dormendo, perché non valeva più la pena di prendersela con quella Juve che pareva un cadavere, una Juve che ridacchiava delle sue disgrazie, e si faceva male da sola, in prenda ad una sindrome di autodistruzione.

Però il sentimento popolare teneva un occhietto socchiuso, perché sapeva che quella della Vecchia Signora poteva essere solo una morte apparente, nell’attesa di un principe azzurro che con un bacio la risvegliasse dalla catalessi in cui l’aveva precipitata la puntura del fuso della strega Calciopoli.
Il principe era arrivato e, piano piano, la Vecchia Signora ha iniziato a risvegliarsi, fino a tornare a dar fastidio, cioè a vincere: che era ciò che dava fastidio, in realtà.
Ed ecco che prepotenti, con una violenza che forse così repentina, furiosa e feroce in molti (ma noi sì) non si aspettavano, sono rispuntati l’astio, l’accanimento, l’odio e il livore anti-Juve. Dal post Milan-Juve, con le vergognose parole di Pellegatti al comunicato sul sito del Milan alla crociata anti-Buffon e allo strillare dei media, e non è certamente finita: la Juve si è chiusa nel silenzio, le risse da pollaio non fanno per lei, ma siamo certi che sia un silenzio vigile, ben diverso dal silenzio espiante dell’era Blanc; questa Juve vuol rispondere sul campo, e nei tribunali se necessario.
Ma quali sono le cause di tanto rancore nei confronti dei colori bianconeri?
1. Anzitutto essere vincenti, storicamente vincenti: sul campo è sempre stato difficilissimo aver ragione di quelle undici scatenate maglie bianconere, e allora restavano i tavolini; a dare il buon esempio chi poteva mai esser stato? Un Moratti, naturalmente, nella fattispecie Angelo Moratti (padre di Massimo), che nel lontano, ma solo temporalmente, 1961, cercò di carpire il suo primo scudetto a tavolino. Gli disse male, e guarda caso il presidente della Juve si chiamava Agnelli: e guarda caso era Umberto, il papà di Andrea, l’attuale presidente bianconero. E dunque per fermare l’ascesa della Juve verso la terza stella servivano i tavolini: che in effetti sono entrati in funzione.
2. Essere puliti: in un mondo dove c’era chi taroccava i bilanci, vendeva i marchi, falsificava documenti, giocava con le plusvalenze manco fossero figurine Panini, c’era una società che rigava dritto, faceva anche le nozze coi fichi secchi, ma erano fichi secchi seccati al sole della bravura manageriale. Hai voglia a comprare Vampeta e Domoraud, vincevano sempre loro, le zebre.
3. Saper perdere, che è anche più difficile che saper vincere: nella Juve le sconfitte suscitano sempre tanta amarezza (come brucia quella finale di Champions League persa immeritatamente contro il Milan!), ma il verdetto del campo, se e quando del campo è, è sacro. E a chi perde con dignità nulla si può rimproverare.
4. Pretendere parità di trattamento: sul campo e fuori. Se la parità viene violata, lo si denuncia, con fermezza, ma senza isterismi. E questo suona male, per esempio, a chi per protestare non sa far di meglio che scendere negli spogliatoi ad insultare i suoi ospiti; e suona forse ancor peggio a chi pretende di scambiare, agli occhi del mondo, i propri errori gestionali per torti subiti.
5. Aver detto: “Basta con le farse passate, presenti e future. Fuori la verità. Si restituisca il maltolto”.
6. Aver chiesto la riparazione dei danni materiali subiti, com’è naturale in qualsiasi logica aziendale che si rispetti. Quei 444 milioni di euro la Figc non ce li ha. Mica vorrete farla fallire? obiettano. E perché allora era giusto rischiare di far fallire la Juventus con una pena, oltre che ingiusta, comunque sproporzionata? ‘L’obiettivo è fare danno a chi ci ha fatto danno’, replicano inesorabili da Corso Galfer.
7. Aver l’ardire di opporsi ai vertici del sistema, difendendo la propria causa in tutte le sedi e dichiarando apertamente la decisione di andare fino in fondo, fino in fondo al fondo. E quando Petrucci si adonta e grida accorato al doping legale, la risposta arriva immediata e congrua: Niente passi indietro da parte nostra, semmai facciamone tutti uno avanti. Se poi qualcuno non c’è stato e ha preferito rimaner seduto al tavolino, pazienza: si segue la via maestra.
8. Il non morire mai. Sul campo e fuori. In campo la vera Juve (non la dimessa fotocopia dell’era Cobolli-Blanc-Secco) non muore mai, dal campo si esce con la maglia sudata e con la lingua penzoloni, sempre: è sempre stato così ed ora Conte, uno col Dna gobbo nel cuore e nella testa, l’ha reinculcato per bene nell’animo dei suoi. Ecco perché nessuno può permettersi di dire ‘sul due a zero per noi la partita è finita’: la partita termina all’ultimo decimo di secondo del recupero, non un nanosecondo prima. E fuori dal campo la Juve, ‘ha saputo resistere a cosa ha subito, esisterà anche in futuro quando continuerà a perseguire i responsabili anche se nel frattempo avranno smesso di ricoprire le cariche attuali o quelle avute. La Juventus resterà”, son parole dell’avvocato Briamonte. Traduzione: il delitto perfetto non è riuscito; sconsigliato riprovarci.
9. Aver trovato il coraggio di cambiare, con la forza del lavoro: in un mondo incartapecorito, dove le figure che per inerzia comandano il gioco sono sempre le stesse, da un’eternità (ed è forse questa presunzione di immortalità del loro potere che conferisce loro una sicumera senza confini, al limite della iattanza), la Juve si è affidata ad un giovane presidente che, lungi dal recitare il ruolo di giovin signore che qualcuno ha subito preteso di appioppargli, si è rimboccato le maniche, dedicando le sue giornate a spazzar via le macerie e rifare grande e rispettata la Juve. Servivano coraggio e voglia di lavorare, due qualità che certo non gli fanno difetto.
10. Essere la Juve: perché la Juve vive nel cuore dei suoi tifosi, che anche nei momenti peggiori hanno tenuto acceso la fiammella della vita, e hanno lottato per la verità e la giustizia. Perché la Juve è anche un’idea, e le idee non muoiono mai.
twitter: @CarmenVanetti1