Essere juventini a Napoli / 2: dopo il 3-3

tifosiPrima di tutto, una raccomandazione alle persone che mi conoscono e che mi vogliono bene (non sempre le due cose coincidono…). L’anno prossimo, alla fine di agosto, vi regalerò un calendario del campionato. Cercate la partita Napoli–Juventus e segnatevela sull’agenda. In quel giorno inventatevi qualunque cosa, invitatemi ad una conferenza sull’architettura paleocristiana del quarto secolo o a una cena con Belen. Va bene tutto. Basta che mi impediate di andare a vedere la partita.

Eh già, ci sono caduto di nuovo. Non c’è verso: quando frequenti le cattive compagnie, poi ci paghi le spese, la mia mamma me lo diceva sempre. Ma anche stavolta, ammetto, non ce l’ho fatta.

Erano le 11 di sera del 15 marzo del 1989, una generazione fa, quando un colpo di testa di Renica aveva provato a farmi capire che la dimensione ideale, per me, per vedere questo derby era il salotto di casa mia. E, invece, niente. Capita che incappi sempre nello stesso errore, quello di cedere al richiamo della maglia bianconera e allora non puoi proprio prendertela con nessuno.

Siamo in tre in macchina all’andata ma nessuno parla della partita. Gianluca rispolvera alcuni aneddoti degli anni dell’Università, Michele, che di solito è più silenzioso, ha voglia di parlare del suo servizio militare. Chissà come siamo arrivati a toccare questi argomenti ma tutto va bene per non pensare alla gara.
Dopo Napoli–Juventus c’è una settimana difficile. Ci sono amici che non aspettano altro per far partire sfottò e prese in giro. Roba da darsi malati per qualche giorno e sperare che passi la tempesta, dovesse andare male. Napoli–Juventus è una porta attraverso la quale entri in un tunnel lungo chissà quanto, o in uno splendido giardino fiorito. Napoli–Juventus è la partita che tutti gli juventini a Napoli non vorrebbero mai che arrivasse.

Oggi è il giorno, anzi la sera. Un’attesa durata anche più del solito per il rinvio ormai famoso ma ci siamo. Cavani non gioca, mi dice Michele. Non ci credo, nemmeno se lo vedo seduto accanto a me sugli spalti.

Entriamo nello stadio quando ci son già musica, luci e gente. Tanta musica, tante luci ma, soprattutto, tanta gente. Rimaniamo in piedi, sui gradoni. I miei amici lo sanno che sono il più pericoloso, lo sanno, lo leggo dai loro occhi. Stamattina, per scherzare ho detto loro che sarei venuto con la maglietta bianconera. So che per un momento ci hanno creduto, per questo voglio loro bene.
La maglietta bianconera ce l’ho veramente, ma sotto al maglione, così siamo tutti contenti. Ma loro sanno che sono il più pericoloso, lo capisco da quando mi mettono in mezzo, come per creare una difesa. Mi rifiuto di saltellare al coro “chi non salta è juventino…” perché dovrei farlo? Io sono juventino. Salta, ti prego, mi dicono gli occhi di Michele.
È in quel momento che capisci e ti chiedi che cosa ci sei venuto a fare. Vedere la partita dallo stadio è come essere invitati ad una festa. Ha senso solo se puoi partecipare a tutti i momenti. Non ha senso se ad una festa non puoi farti una birra perché ti viene mal di stomaco, non balli perché hai i crampi e guardandoti intorno ti accorgi che tutte le ragazze della festa - tutte - sono fidanzate con culturisti permalosi. Anzi: non tutte. La più bella è lì da sola, ma per un sortilegio intorno a lei c’è una campana di cristallo invisibile che ti impedisce di avvicinarti e parlarle.
Ti guardi intorno e cerchi di capire chi si trovi nella tua stessa situazione. Ti accorgi che, come nella pubblicità progresso di qualche anno fa, c’è gente che è attorniata da un alone viola… potresti riconoscere gli juventini ad occhi chiusi, qui in mezzo, ma tutti fanno finta di niente. C’è anche un altro momento in cui potresti riconoscerli: al momento del secondo gol della Juve; a meno che tu non sia nato in Paraguay, se non sei juventino non riesci a dirlo il nome di quello che ha segnato…

C’è un rigore per il Napoli, cominciamo bene. Non c’è davvero Cavani, e lo tira un altro. Gol, anzi, no, si ripete. Solo che sembro essere l’unico ad accorgermene, quelli accanto a me sono impegnati ad impazzire. Anche Michele e Gianluca. Provo a dirglielo, senza nemmeno celare un pizzico di soddisfazione…

L’intervallo è un supplizio. C’è uno accanto a me che ha già preparato una tabella di avvicinamento alla vetta della classifica, ce n’è un altro che parla dei Borbone e dell’unità d’Italia, queste partite servono per ristabilire la Storia, un altro che dice che finché gioca Bonucci la Juve non va da nessuna parte. Eccone uno con cui potrei intavolare una discussione partendo da un punto comune senza sembrare quello che sono…

3-1, doppietta di uno che non gioca mai, era meglio se c’era Cavani, provo a dire; e Gianluca si guarda intorno per vedere se ha sentito solo lui. Andiamo via, gli dico, evitiamo il traffico. Sai che questa gara potrebbe essere una disfatta, questi se trovano coraggio, spinti dal pubblico, ce ne fanno sei, almeno lo sapremo solo quando saremo a casa. Tra l’altro ti accorgi anche di avere fame. Ti verrebbe voglia di dire anche ai ragazzi in campo di venire con te in pizzeria, tanto è tutto finito.
Ma.

Hai visto troppe partite di calcio nella tua vita per non sapere che quando il numero 7 prende la palla nella sua metà campo, quello è esattamente il momento in cui tutta la tua prossima settimana sta prendendo un’altra piega; fa una trentina di metri palla al piede, e tu sai che il giorno dopo riuscirai ad andare al lavoro, senza doverti fingere malato; vince un rimpallo, e capisci che il tuo cellulare e la tua casella di posta non esploderanno nelle prossime ore; si trova la porta davanti e prova a metterla nell’angolo in basso alla sinistra del portiere, sei finalmente consapevole che quello è il momento in cui tutte le tue mortificazioni di juventino a Napoli sono state riscattate.

Te lo dicono quelli che stanno accanto a te: in quel momento ti rendi conto che sessantamila persone tutte insieme possono anche creare un silenzio assordante. È tutto quello che senti intorno a te: silenzio. Anzi: il silenzio. E il battito del tuo cuore.