Il senso di appartenenza

tifosiA cinque mesi dall’inizio della rivoluzione in Corso Galileo Ferraris, uno degli elementi che emerge da un primo bilancio del nuovo corso dirigenziale firmato Andrea Agnelli è la riappropriazione di un forte senso di appartenenza e di identificazione con la squadra, la società e i colori.
Sono, questi, concetti che negli ultimi quattro anni sono andati via via annacquandosi. Quattro anni nei quali molti Juventini (tra cui chi scrive) hanno sicuramente continuato a seguire la squadra, ma senza quella forza trascinante che ti porta a sentirti un tutt’uno, una piccola parte di un grande meccanismo che ruota nella stessa tua direzione. Tifosi sì, appassionati certamente, ma quasi ormai per inerzia. E l’inerzia, si sa, è un fenomeno che nel corso del tempo va pian piano scemando.
La frattura profonda venutasi a creare in seguito ai fatti del 2006 e al modo in cui la società gestì quelle vicende ha per forza di cose avuto ripercussioni nel modo in cui una parte della tifoseria si è accostata, in questi anni, all’universo-Juve. Certo, il tifo per la squadra non è mai venuto meno. Ma sempre più spesso andava diventando un fenomeno ristretto al solo fatto domenicale, quasi una buona abitudine da mantenere. La partita, la Juve che gioca, la foga di quei 90 minuti. Fine.
Una sensazione quasi di incompletezza, per la mancanza di quella scintilla che ti fa sentire più di un semplice tifoso, e che ti fa vivere il tuo essere juventino a 360 gradi.
Da sempre, essere tifoso juventino è solo incidentalmente tifare per una squadra di calcio. La juventinità è un insieme di valori, un’identità sociale ben definita che trae origine da oltre un secolo di storia ed assurge a modello comportamentale, a modo di approcciare la vita di tutti i giorni. Non credo di esagerare definendola una filosofia di vita. Sono cose che sono sicuro ogni tifoso juventino ha provato almeno una volta nella sua vita, se non altro a livello di sensazione.
E’ stato però molto difficile, in questi anni, sentirsi così. Tutta una serie di comportamenti, atteggiamenti, fatti concreti, gaffes nel rapportarsi con la propria storia, con la tifoseria e col mondo esterno hanno minato alla base questo comune sentire che sta alla base del sentirsi frammento di tale storia che nasce da lontano e da allora aveva sempre marciato verso la stessa direzione. L’ultima stagione sportiva, poi, annoverabile tra le peggiori di sempre, ha inevitabilmente accelerato il raggiungimento di un punto di non ritorno. Il distacco si è fatto più forte, ed ha coinvolto pesantemente anche la squadra oltre alla società. Da lì bisognava giocoforza invertire la rotta, svoltare di 180° per non disperdere definitivamente un patrimonio inestimabile di valori e passione.
I primi passi della gestione Agnelli, invero, non sono sembrati propriamente orientati verso quella riscoperta del senso di appartenenza. La veloce deposizione di uno degli ultimi esempi viventi di juventinità quale è Roberto Bettega, uno che del senso di appartenenza alla Juventus ha fatto una ragione di vita, è sembrato il classico partire col piede sbagliato. E ancora oggi, non riesco a spiegarmi i motivi per cui nella nuova Juve non ci possa essere spazio per le sue qualità umane e professionali.
Dopo questo inizio, però, il cambiamento tanto atteso si è iniziato a intravedere. Se da un lato la campagna di rafforzamento ha generato, e non a torto, diversi mal di pancia per la discrepanza tra le aspettative che erano state seminate e la rosa poi effettivamente allestita, dall’altro si è registrato quel tanto auspicato cambio di passo, quel ritorno ad un modo di fare che ha caratterizzato un passato glorioso bruscamente interrotto.
Gli argomenti che stanno più a cuore alla tifoseria sono stati affrontati dal neo-Presidente in due lettere rivolte ai tifosi e in un'intervista-manifesto rilasciata a Sky. Parole come giustizia, voce della Juventus da far sentire in ogni sede, scudetti da revocare ed eventualmente restituire ai legittimi proprietari sono risuonate piacevoli alle nostre orecchie, pronunciate da chi considera la Juve “Amore e passione”, esattamente come era per suo padre.
Sono, questi, segnali importanti che, seppure nell’attesa che vengano seguiti da comportamenti coerenti man mano che le vicende politico-processuali si dipaneranno, hanno sortito nell’ambiente l’effetto voluto. Vedere una società che quando parla della sua storia, in particolar modo quella recente, lo fa finalmente con ostentato orgoglio e non con malcelato fastidio; che quando si rapporta con chi ne ha proditoriamente usurpato il trono lo fa con sfrontata fierezza, e non con timorosa remissività, è un qualcosa che rimesta in ogni juventino sensazioni ormai sopite, e che fa effettivamente riemergere dopo quattro anni l’orgoglio della propria appartenenza ad una società che ha stima di sé e di ogni istante della propria storia.
Quasi come conseguenza di ciò, abbiamo anche recentemente ammirato una squadra che, pur nei suoi evidenti limiti tecnici, è sembrata ritrovare quel DNA juventino che ne ha caratterizzato le stagioni migliori, e questo è stato immediatamente percepito dal pubblico e ricambiato con spropositato affetto. E in questo contesto si inserisce alla perfezione il ritorno di Pavel Nedved, per ora solo ufficioso ma già importante per il solo fatto di rivederlo lì, insieme alla squadra prima della partita o in tribuna a soffrire con noi.
Il futuro ci dirà se si tratta solo di un fuoco di paglia o se effettivamente una Nuova Vecchia Juve stia emergendo all’orizzonte. Per ora, è già bello ritornare a provare qualcuna di quelle sensazioni che nemici e presunti amici avevano provato a scipparci.