Cosa non torna di Calciopoli

gogna mediaticaSapete cosa non torna di Calciopoli? No, non le sentenze, non i processi fatti col cronometro e le zacconate dello sciagurato collegio difensivo juventino. No, neppure quei titoli di giornale, quegli editoriali con la bava alla bocca, quegli interventi alla melassa in cui libertà di stampa e diritto di cronaca si adagiavano come maldestri coperchi sul più misero fanservice che stampa sportiva abbia mai prodotto. E nemmeno i guidirossi, i Borrelli, i Palazzi, i Ruperti e i Sandulli.
In una logica dell’estremo, in una visione distorta e sensazionalistica dell’evento sportivo, sono stati elementi finanche prevedibili. Tragici, strazianti, tremendamente ingiusti, ma pur sempre rigidamente logici se consideriamo l’habitus di fruizione che giornali e televisioni ci hanno costruito attorno e l’impiego che questi fanno della meccanicità emotiva (a stimolo segue risposta) di un’utenza mai così mediamente media.
Abbiamo, infatti, assistito alla consumazione di un feroce banchetto, poggiato sulle solide gambe del sentimento popolare e rifornito a colpi di iperbole revanchista. Una storia ultracentenaria mandata al macero e buttata in pasto a gonzi assetati di trafiletti al vetriolo, di condanne prêt-a-porter, di giustificazioni e pezze d’appoggio che - per una volta e finalmente - avessero un sapore diverso da quello della recriminazione e del lamento.
Calciopoli è stato un evento che di sportivo ha avuto solo il nome, e forse neanche quello. Non lo è stato certamente nei tribunali ma neanche, e sopra ogni altra cosa, nelle teste dei tifosi, nei cervelli di coloro che di calcio vivono e discutono. E’ questo che non torna. Il tanto banale lato umano. Alla Juventus, e ai suoi sostenitori, non è stato concesso nemmeno l’onore delle armi. Laddove è stato possibile, ad umiliazione si è sempre aggiunta altra umiliazione. A sberleffo altro sberleffo. A odio altro odio. Calciopoli è stata - più di ogni altro recente fatto sociale - la tomba della ragione e, in senso strettamente antropologico, l’azzeramento di ogni restante speranza di intendere ventidue uomini in mutande appresso a un pallone solo e semplicemente come ventidue uomini in mutande appresso a un pallone. Calciopoli trasuda di ostilità politica, di intolleranza religiosa, di quartierismo combattuto con i sassi, di sabine scippate e di teste mozzate davanti all’accampamento.
Dio mi smentisca, ma vi è più probabilità di trovare un intero campo di quadrifogli che un non-juventino disposto, non dico, a dare ragione alla controparte, ma quantomeno a intrattenere una serena analisi basata su fatti e non su dicerie e opinioni. Alla riflessione, quasi sempre, è stata contrapposta la rivendicazione, al dialogo il più avvilente stereotipo. I meno litigiosi, o coloro che soffrono di quella malattia che spaccia per saggezza il mostrare agli avversari una bonaria (e opportunistica) tolleranza, si spingono al massimo a sentenziare che “è ora di voltare pagina e di non pensarci più”.
Passi per il tifoso da strada e per l’appassionato sventolabandiere. Ma mai un solo personaggio pubblico, una personalità in vista, un opinionista, un ragionatore da salotto televisivo si è concesso il lusso di obiettare se stesso o, folgorazione divina, di ammettere che non tutto ciò che sembra, è.
Per fortuna, a ragionare, ci pensa la storia. O il tempo che, si dice, è galantuomo. Il destino, per ora, è meglio lasciarlo da parte. Anche se, una volta restituitoci il maltolto (su questo non si scappa), beffa migliore non ci sarebbe che lasciar loro (con divertita tolleranza) quegli ultimi quattro scudetti. A mo’ di condanna. A imperitura memoria. Un indelebile marchio di Caino, con l’atroce consapevolezza da parte loro di dover ricorrere a un pezzo della nostra storia per avvalorare, e giustificare, la propria.