Uno Juventino ad Anfield

anfieldAgosto 2010, niente sole, niente mare; tanta auto, giacca autunnale, paesaggi e castelli scozzesi.
“Campo base”, Liverpool; ed è proprio un’esperienza legata alla città dei Beatles, tuttora una miniera d’oro per gli “scousers”, che vi volevo raccontare.
Il calcio nel Merseyside è sacro: dalla fine dell’Ottocento sono arrivate tante soddisfazioni dall’Everton, il quarto club più titolato d’Inghilterra e il più antico della città; e soprattutto dal Liverpool, il club più titolato del Paese.
Cosa evochi nella mente dei tifosi juventini la parola “Liverpool” lo sappiamo tutti.
Ricordo l’angoscia di quella notte, l’ansia per il destino di amici e parenti stretti che erano all’Heysel mentre il sottoscritto, allora quattordicenne, di quella serata avrebbe voluto conservare ben altro ricordo.
Ancora oggi ci sono persone che hanno scelto di non dimenticare manifestando il proprio odio, altre che all’epoca dei fatti non erano neppure nate ne parlano come se fossero in attesa di una specie di Guerra Santa.
Non condivido, ma non voglio innescare polemiche, voglio solo raccontare un’esperienza da appassionato di calcio e, fattore non trascurabile, da juventino.
Ho visitato Anfield, e ho scoperto cose che mi hanno sorpreso. In positivo.
Tour guidato, guest lounge come prima tappa. Locale sobrio, essenziale. E' così tutto lo stadio. Sala stampa e mix zone? Ancora: piccole e sobrie, zero concessioni al lusso.
Gli spogliatoi, sia quelli “reds” che quelli destinati agli ospiti, sono grandi e spaziosi, ma anche qui nessuna pacchianata.
Unica eccezione al “pathos”: una fotografia in bianco e nero a grandezza parete che ritrae Bill Shankly, il “papà” del grande Liverpool moderno, intento a catechizzare i suoi uomini.
Alle altre pareti sono appoggiate le panchine, disposte a ferro di cavallo, e le maglie appese indicano l’assegnazione dei posti: la maglia di Gerrard si trova, ovviamente, al centro.
Di fronte allo spogliatoio si trova l’accesso al terreno di gioco: pochi gradini scendono verso il breve tunnel, sovrastati dallo stemma del club e il celebre monito: “THIS IS ANFIELD”, anche questo un retaggio dell’era-Shankly, un avvertimento agli avversari per l’ambiente che troveranno pochi metri oltre quella scritta.
Anche vuoto, lo stadio conserva un gran fascino: posso solo immaginarlo pieno con 45.000 fans che intonano “You’ll never walk alone”.
Prato fantastico, perfetto, plauso ai giardinieri e al loro più prezioso alleato: il clima.
Il box dello staff tecnico ricavato all’interno della tribuna non ha nulla a che vedere con le panchine italiane.
La copertura della tribuna principale è sorretta da quattro grossi pilastri piazzati nel mezzo della stessa Main Stand. Anfield risale al XIX secolo, venne ristrutturato in maniera consistente nel 1928 e poi assoggettato a ulteriori restyling negli anni Settanta e Novanta: qualche concessione al “vintage” è giustificabile.
Visibilità straordinaria da qualsiasi punto, zero barriere se si esclude una piccola griglia alta mezzo metro posizionata davanti alla Kop, appena dietro ai sostegni per i tabelloni pubblicitari, unici veri ostacoli fra campo e spalti.
La Kop: il cuore del tifo dei “reds”, una tribuna talmente profonda che sembra non finire mai.
Informazioni dalla guida: la media di richieste stagionali è di 92.000 biglietti a partita. Tradotto: se si desidera assistere ad una partita ad Anfield affidandosi ai canali convenzionali, occorrono circa 15 anni di attesa!
Si aspetta il trasferimento a Stanley Park, dove dovrebbe sorgere il nuovo stadio, ma la crisi finanziaria nella quale versa il club allontana, almeno per ora, qualsiasi progetto.
Il tour guidato termina, resta da vedere il museo che trasmette la solita impressione di sobrietà, ed è qui che ho scoperto cose che mi hanno piacevolmente sorpreso.
Di fronte alla scalinata che porta al museo, c’è un grande mosaico che riproduce una sequenza di maglie rosse in miniatura: su ognuna di esse è scritto un cognome e un numero, e la successione, in ordine alfabetico, arriva fino a 96. Sono le vittime dell’Hillsborough.
Una transenna mobile, in realtà un vecchio cancelletto dello stadio, introduce i visitatori all’ingresso del museo.
Trofei, cimeli, maglie storiche, oggetti appartenuti ai grandi del passato, didascalie perfettamente documentate, persino una vecchia barriera di legno originale della Kop poggiata su pezzo di gradinata anch’essa originale, davanti ad uno schermo gigante sul quale scorrono immagini del passato. Per far rivivere a chi non l’ha vissuta l’atmosfera del passato.
Pareti intere celebrano gli idoli di casa: Billy Liddell, il Gerrard degli anni Cinquanta; Kenny Dalglish, forse il più grande dell’epoca moderna; Ian Rush, massimo bomber della storia del club.
A proposito di Rush: nello spazio a lui dedicato, al centro della saletta principale, trova posto anche la sua maglia bianconera, ricordo di una stagione poco fortunata e non solo per colpa sua.
Ma è l’ultima stanza del museo che colpisce il mio animo “gobbo”.
Mi fa piacere che nella stanza nella quale sono esposte le cinque Coppe dei Campioni vinte dal Liverpool ci sia spazio per i nostri ricordi.
Una lapide celebra l’incontro del 5 aprile 2005 fra i “Reds” e la Juventus con la frase: “In memory and friendship”; un’altra riporta la seguente dicitura: “In memoriam. In memory for those who died at the Heysel Stadium, Brussels. May 29, 1985”.
Un gagliardetto incorniciato che riepiloga il cammino della Juve nella Coppa dei Campioni del 1985 (presumibilmente donato dalla stessa Juventus) e la maglia indossata da Dalglish nella notte dell’Heysel completano la sequenza di ricordi di quella serata.
Una sala video e uno stanzino nel quale trovano posto trofei minori conducono all’uscita.
Fuori, la statua a grandezza naturale di Bill Shankly domina l’accesso allo Shopping Center, manco a dirlo pieno di famiglie intente a fare acquisti. Nel Regno Unito indossare i colori del proprio club è un motivo di vanto e orgoglio e, seppure la crisi economica non accenni a dar tregua, nessuno esce senza aver acquistato qualcosa.
Qualcosa ho comprato anch’io, che non possiedo né cultura né mentalità inglese, ma sarei contento di vivere un’esperienza simile nello stadio del mio club.

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