La sentenza d'appello: due anni di ingiustizia sportiva

giustiziaLo scorso 27 ottobre, la Corte di Giustizia Federale, presieduta dal Dott. Coraggio, ha reso nota, attraverso comunicato ufficiale, la decisione riguardante i ricorsi presentati dai dirigenti sportivi Luciano Moggi e Mariano Fabiani, gli arbitri Bertini, Cassarà, Dattilo, De Santis, Gabriele, Pieri e Racalbuto e l'assistente Ambrosino, che hanno tutti impugnato la decisione dello scorso 6 agosto, che li condannava all'inibizione delle loro attività per un lungo periodo, per violazione dell'art.1 del Codice di Giustizia Sportiva, riguardante i doveri di lealtà, probità e correttezza.
Diversi i motivi di impugnazione, procedurali e di merito, proposti dalla difesa dei tesserati inibiti, opposta al Procuratore Palazzi che ha fatto richiesta di rigetto di ogni ricorso.
La Corte ha infine accolto i ricorsi di Moggi, Gabriele, De Santis e Bertini, annullando la precedente decisione che aveva portato all'inibizione degli stessi, mentre ha respinto le ragioni difensive degli altri sei ricorrenti, per i quali permane pertanto la squalifica.
Andiamo ad approfondire i motivi della decisione della Corte.

"Questa Corte, consapevole della sussistenza di precedenti decisioni rese in senso difforme".

Proprio così. La Corte di Giustizia Federale, ben sapendo di precedenti decisioni prese in senso contrario, accoglie i ricorsi di Moggi e Gabriele. Di fatto reputando sbagliate e non conformi al quadro legislativo, le precedenti decisioni.
Se il tesserato rinuncia alla sua carica, ovvero dà le dimissioni, anteriormente all'avvio del processo disciplinare, ossia del deferimento, non è sottoponibile a giudizio da parte degli organi sportivi.
Come rileva la Corte, la fattispecie delle dimissioni posteriori a deferimento, è espressamente trattata all’art. 36, comma 7, delle N.O.I.F., ma per quanto attiene alle dimissioni presentate prima, l'art.30 dello Statuto FIGC è chiaro nell'estendere la giurisdizione degli organi di giustizia sportiva solamente ai tesserati.
La Corte specifica che, come naturale, qualora Moggi intendesse riprendere attività da tesserato FIGC, il procedimento a suo carico sarà riaperto, i tempi di prescrizione nel frattempo bloccati, e, se le sue dimissioni ritenute strumentali al sottrarsi al giudizio, potrà essere ulteriormente deferito ex art.1. Ma sancisce, fuori da ogni ragionevole dubbio, l'impossibilità di giudicare un non tesserato.
E' una decisione tanto naturale e dovuta, quanto storica.
Tale basilare concetto di legge, infatti, espresso dalla Corte in non più di 20 righe, con assoluta fermezza e nella consapevolezza delle decisioni prese precedentemente, non ha trovato applicazione per ben due anni presso le sedi di giustizia sportive e amministrative. Luciano Moggi, dimessosi il 16 maggio e deferito il 6 giugno del 2006, è stato sottoposto a giudizio sportivo una prima volta, in assoluta carenza di giurisdizione da parte di quella Corte. Cesare Ruperto disse che "sussiste l'interesse della Figc al giudizio", ma tale interesse, specifica questa Corte, seppur permanga nel caso il soggetto intenda tesserarsi di nuovo, non si esplicita invece nel periodo in cui l'individuo ha rinunciato alla sua carica da tesserato.
Luciano Moggi ha visto rigettati i suoi ricorsi al Tar basati su questo elementare principio di diritto. Tar del Lazio che, vogliamo ricordare, è un tribunale che esiste ma che è composto da numerosi magistrati con doppia carica, operanti anche all'interno della giustizia sportiva.
Infine, colmo dell'assurdo, ben 2 anni dopo le sue dimissioni, Moggi è stato ancora una volta giudicato dagli organi di giustizia sportivi. Un po' troppo anche per l'allegra giustizia sportiva che, con questa decisione, ha finalmente statuito l'irregolarità delle decisioni precedenti.
Per quanto riguarda il secondo processo, pertanto, la squalifica in continuità è da ritenersi annullata. Nel caso Moggi voglia tesserarsi di nuovo, la sua posizione sarà nuovamente giudicata, ma, con buona probabilità, l'aggravante dell'art.1 menzionata prima non gli sarà contestata, dati i 2 anni trascorsi, e il principio del "ne bis in idem", con cui sono stati ritenuti ingiudicabili Bertini e De Santis, varrà anche per lui.
Il primo processo, invece, ha esaurito il suo iter sportivo, senza che il principio dell'ingiudicabilità di un non appartenente all'ordinamento venisse riconosciuto. Rimangono i 5 anni per Moggi, i cui diritti di imputato di fronte a un tribunale ordinario sono stati gravemente offesi, così come, più in generale, la sua reputazione.
Due anni dopo quindi, la giustizia sportiva applica la legge così come scritta.
Può darsi il merito sia di quell'interrogazione parlamentare che ne ha pesantemente messo in dubbio indipendenza e correttezza.
Permanendo l'intenzione di Luciano Moggi e dei suoi difensori, di rivolgersi al Consiglio di Stato, - per dirla pane al pane: l'appello delle decisioni del TAR - potrebbero però esserci ulteriori sorprese anche per quanto attiene al primo processo sportivo.
Se il Consiglio di Stato (anch'esso segnato dalla piaga delle doppie cariche) confermasse l'orientamento espresso dalla Corte Federale in appello, anche la squalifica per 5 anni inflitta a Moggi verrebbe revocata.
Per dirla à la Lucarelli: paura, eh?

"Si impone una declaratoria, nei loro esclusivi confronti, di improcedibilità del deferimento".

Nei confronti di De Santis e Bertini. Quest'ultimo ringrazia per essersi visto rovinare la carriera, pur indenne da giudizi di colpevolezza a suo carico. Infatti, come abbiamo scritto, una nuova norma AIA (ad hoc?) gli impedisce di tornare ad arbitrare, considerato il periodo di inattività coatta, maturato dopo la sospensione decisadagli stessi vertici AIA.
Bertini e De Santis sono già stati giudicati nel 2006 su questa fattispecie, che ricordiamo è una presunta violazione dell'art.1 e non un illecito, e pertanto vale il principio del "ne bis in idem". Principio che, qualora Moggi dovesse ritesserarsi, varrebbe anche per l'ex ds della Juve.
Annullate quindi le squalifiche comminate dal precedente giudizio. L'avvocato del fischietto aretino, Mauro Messeri, ha commentato: "E’ come se gli avessero dato il massimo di carcerazione preventiva e poi lo avessero dichiarato innocente"; inoltre ipotizza una causa per danni morali e patrimoniali: "E’ il caso tipico di risarcimento per ingiusta detenzione".
Terminata l'odissea sportivo-giudiziaria, si potrebbe quindi prefigurare il turno del risarcimento danni per molti protagonisti della vicenda.
Anche qui, ci chiediamo come abbia potuto la Corte, in prima istanza, ignorare l'eccezione della difesa su un giudizio già avvenuto. Il principio del "ne bis in idem", comune a tutti gli ordinamenti, sancisce infatti l'impossibilità a giudicare una seconda volta quanto già oggetto di giudizio. E De Santis (condannato), Bertini (assolto) e Moggi (condannato pur essendo ingiudicabile) sono già stati giudicati su questa fattispecie nel processo-barzelletta del 2006. Tanto più, nel maxi-procedimento del 2006, in fase di giudizio, il principio del ne bis in idem è stato esplicitamente richiamato, a memoria futura.
Alla luce dell'improcedibilità del deferimento la vicenda di Bertini appare quindi ancora più drammatica, in quanto senza deferimento non sarebbe scattata la sospensione e oggi arbitrerebbe come giusto. Trovare una spiegazione è difficile.
Sarà forse che per i titoli delle condanne si usa un carattere più grande di quello riservato alle assoluzioni?

"La Corte per economicità ritiene di trattarle unitariamente osservando quanto segue".

Passiamo quindi ai ricorsi rigettati, quelli degli altri 6 imputati: Ambrosino, Cassarà, Dattilo, Fabiani, Pieri e Racalbuto.

Analizziamo i motivi di impugnazione, a noi parsi più fondati:
1) Mancata applicazione dei termini previsti dall'art.32 comma 11 del Codice di Giustizia Sportiva che riportiamo: "Le indagini relative a fatti denunciati nel corso di una stagione sportiva devono concludersi prima dell’inizio della stagione sportiva successiva, salvo proroghe eccezionali concesse dalla sezione consultiva della Corte di giustizia federale."
Le difese lamentano che gli atti, giunti alla Procura Federale il 16 aprile del 2007, avrebbero dovuto determinare la chiusura delle indagini il 30 giugno dello stesso anno. Le indagini sono state invece prorogate dopo l'improrogabile data descritta dall'art.32.
Si lamenta perciò la mancanza della proroga entro i tempi di legge, di guisa la tardività della stessa e l'illegittimità, non essendo nell'atto spiegati i motivi di eccezionalità per cui si è proceduto.
La Corte obietta che la richiesta di proroga era stata formulata in data giovedì 28 giugno dal Capo Ufficio Indagini Borrelli, ricevuta dal Presidente Federale però soltanto il 4 luglio (un ufficio Poste interno degno del Procuratore Palazzi), poi reiterata e infine approvata, ritenendola motivata, dalla Sezione Consultiva della Corte il 25 luglio, avendo quest'ultima acquisito il potere di proroga solo dal 1 luglio. Le pronunce di quest'ultima sono inoppugnabili in quanto organo giurisdizionale al pari delle altre sezioni.
L'articolo 32 non è del tutto chiaro in merito: se il termine sia valido per la proroga o per la semplice richiesta della stessa, facendosi preferire nell'interpretazione letterale la prima opzione. La Corte rileva che il venerdì era la festa del Patrono di Roma, e perciò impossibile deliberare prima. Anche questa risibile ragione, fa propendere per la prima interpretazione, dato che la proroga non è stata concessa il 2 luglio, ma il 25 dello stesso mese.

2) Mancato esame degli incolpati durante il dibattimento ex art.34 comma 6 che riportiamo: "È diritto delle parti richiedere di essere ascoltate in tutti i procedimenti, con eccezione di quelli presso i Giudici sportivi."
La Corte ritiene che gli imputati e i collegi difensivi si siano volontariamente sottratti all’esame così rinunciando al diritto di essere sentiti.
Gli imputati e i difensori effettivamente abbandonarono l'aula durante quell'udienza, ma per protesta, dopo una serie di atti "ostili": furono negate tutte le eccezioni presentate dalle difese, non fu permesso di visionare gli atti del patteggiamento di Paparesta e della Juventus, infine un dirigente della procura entrò con un foglio nella stanza dei giudici, ritiratisi in consiglio, uscendone a mani vuote. L'inammissibilità della richiesta di spiegazioni seguente al fatto, fu la scintilla che accese la protesta delle difese: Palazzi fu lasciato solo a esporre la sua requisitoria.
Se non è presente un difetto procedurale insomma, si deve però imputare agli organi di giustizia sportiva una mancanza di trasparenza francamente ingiustificabile e in antitesi con i proclami da "calcio pulito".

3) Accantonati gli ulteriori motivi di ricorso di natura procedurale che, a nostro parere, la Corte ha correttamente respinto, entriamo ora nel merito della sentenza che ha rigettato le motivazioni dei 6 imputati a cui è stata confermata l'inibizione.
I ricorrenti fanno notare che in nessun modo è deducibile dal mero possesso della scheda svizzera, per altro negato, non soltanto un illecito, come del resto ha convenuto la Corte, ma nemmeno una violazione dell'art.1, che la Corte ha individuato in maniera meramente residuale. Perchè vi sia una violazione degli obblighi di lealtà, probità e correttezza, occorre infatti dimostrare che i contatti tra dirigenti ed arbitri fossero riferiti ad attività sportiva, cosa che non si è in grado di provare.
A sostegno di ciò, le difese sottolineano come i presunti contatti non si verifichino in prossimità dei sorteggi, indizio che porta in altra direzione rispetto a un impianto accusatorio che non può certificare con certezza la natura "sportiva" dei contatti.
Contestano, inoltre, il metodo investigativo, basato, a loro giudizio, su congetture e deduzioni, piuttosto che su fatti reali. Non basta infatti, per accusare della violazione di un articolo del codice, l'assunzione che il fatto sia avvenuto con buona probabilità, ma questo deve essere accertato pienamente. In altro modo si finirebbe per dedurre una conclusione ipotetica da una premessa altrettanto ipotetica.
Ipotetico il possesso della scheda e ipotetica la natura sportiva del contatto. Due ipotesi non fanno una violazione.
E' necessario, da nostra parte, ricordare che l'attuale designatore Collina se la cavò indenne in circostanza del tutto simile, con un'aggravante. Parimenti infatti ebbe contatti con un dirigente di una squadra e allo stesso modo la natura del contatto era legata a un certo livello di segretezza. Certo, potremmo anche contemplare che la sua macchina andò in panne all'altezza di San Zenone e la famosa cena non ci fu mai. Rimangono però le chiacchierate con Meani e un alto grado di probabilità, ricavabile dal colloquio preparatorio con il lodigiano, che il contatto si sarebbe riferito ad attività sportiva.
La Corte non sembra, a nostro parere, entrare nel merito di alcune eccezioni presentate. In apertura parla di "elementi probatori certi" che testimoniano della creazione di un sistema di comunicazioni riservate, ma sulla fornitura delle schede già pare dubbiosa: "direttamente o per interposta persona". Il periodo è cruciale in quanto si certifica come certamente avvenuta la creazione, ma si tace dell'implementazione.
Ritiene, inoltre, la famosa frase dei "contatti di Luciano" nella telefonata Bergamo-De Santis elemento bastante a considerare l'effettivo funzionamento del "sistema", mentre la frase, come già analizzato, si può tranquillamente prestare ad altre interpretazioni.
Più in generale sciorina i dati indiziari dell'informativa dei Carabinieri che definisce gravi, precisi e concordanti nel definire la violazione.
Ma la violazione, argomento della difesa, avviene soltanto se i colloqui sono riferiti ad attività sportiva. La Corte sembra ignorare quest'obiezione, ritenendo comunque il semplice possesso lesivo dei principi di imparzialità e terzietà della classe arbitrale, in quanto tale principio "è da osservare (...) anche in ogni altro rapporto interpersonale comunque riferibile all'attività sportiva per evitare che sia possibile, anche solamente, far sospettare che esso possa trascurare detti valori".
Un qualcosa che sembra aver più a che fare con le responsabilità etiche che deve avere un politico eletto, piuttosto che un preciso dovere di un tesserato AIA. Non sembra necessario, insomma, che un Bertini o un Dattilo abbia la caratura di un Barack Obama. Comportarsi come Collina dovrebbe essere abbastanza.
Comunque sia, è ovvio che la Corte in nessun modo asserisce che tale attività abbia intercorso con il normale svolgimento di un campionato, mai menzionando nè ipotizzando discorsi riferiti ad attività sportive.
In conclusione deliberando, pur confermando un periodo di inibizione tutto sommato eccessivo per la violazione contestata, statuisce "la non eccessiva entità dell'utilizzo delle schede".
Una sentenza insomma che per i 6 imputati conferma la pena, ma ridimensiona alquanto le accuse mosse in sede penale dai Pm napoletani. Che tra poco sentiremo discettare di reato a consumazione anticipata. Qualcosa di biblico, come "non desiderare la roba d'altri". In pratica, avanti così, Moratti rischia l'ergastolo.