Calciopoli, l’ultimo verdetto

Riprendiamo questo articolo del nostro amico Francesco che ha seguito costantemente le udienze del processo calciopoli. Spesso quella di Francesco è stata l'unica voce dall'aula di Napoli. Articolo pubblicato su SpazioJuve

Quelli che “Calciopoli è una brutta pagina”.

Quelli che “dovevate essere radiati”.

Quelli che “non vorrai mettere sullo stesso piano Facchetti e l’Inter, spero”.

Quelli che “ormai meglio metterci una pietra sopra”.

Quelli che “guardiamo avanti”.

Quelli che “e lo dico da juventino”.

Quelli che “con tutto quello che avete fatto vi è andata di lusso” e quando chiedi che cosa abbiamo fatto cominciano a balbettare.

Quelli che “Moggi è un mafioso” e quando gli fai notare che l’unica volta che hanno vinto qualcosa è perché il mafioso era con loro si buttano sul vago.

Quelli che “quel 32 è una vergogna”.

Quelli che “le sentenze si rispettano” e quando gli dici che nelle sentenze c’è scritto che sono 32 dicono che quella è una tua interpretazione.

Quelli che non si sono mai disturbati a leggere una sola carta, una sentenza o una memoria difensiva prima di farsi un’opinione ma che vanno in televisione a parlare.

Sì, quelli. Tutti quelli.

E tu, per tante volte, da solo, a raccogliere quei frammenti di verità che le difese provavano a far filtrare dalle indagini, svolte in maniera parziale. Per tante volte, da solo, a battere sulla tastiera del computer lo stupore e lo sdegno degli avvocati davanti allo sgretolarsi delle accuse. Per tante volte, da solo, a chiederti se nei banchi dell’accusa c’erano persone che recitavano una parte o erano davvero convinte delle tesi che stavano provando a portare avanti, piaccia o non piaccia.

Per tante volte da solo. E tanti altri a copiare, che solitamente ti dà fastidio, ma stavolta no. Stavolta avevi piacere che, in un modo o nell’altro, il tuo lavoro stava servendo a far venir fuori delle verità scomode che si stava provando ad insabbiare.

Sono iniziati e finiti amori, in quella mini comunità che si ritrovava puntualmente nell’aula del Tribunale, prima, della Corte di Appello (al piano superiore, c’è una simbologia anche in questo), poi. È nato un bambino, nel frattempo, qualcuno ha salutato per sempre.

Decine di udienze, milioni di parole, centinaia di facce. La mia professione mi ha insegnato che un processo è fatto di tante cose, ma soprattutto: di facce. Puoi capire tante cose ascoltando arringhe, leggendo comparse, consultando codici e leggi, ma mai quante quelle che una faccia, uno sguardo, possono raccontarti. Quelle, non mentono.

Quella di Prioreschi alla lettura della sentenza di primo grado. Gli hanno dato Udinese – Brescia, diceva. E la faccia aveva l’espressione di un bambino al quale è appena stato svelato che Babbo Natale non esiste.

La faccia di Ambrosino al momento dell’assoluzione, le sue lacrime. E quelle di Rocchi.

 

La faccia di Pieri mentre legge una dichiarazione spontanea con la quale chiede al Tribunale una pronuncia che gli consenta di guardare nuovamente negli occhi il figlio, senza vergogna.

La faccia, lo sguardo, di Nicola Penta quando, tirandoti in disparte, ti dice, con quel suo accento romagnolo, di aver trovato delle telefonate dell’Inter.

La faccia di Scardina che è quella di uno capitato lì per fare un servizio giornalistico per Dribbling, il sabato all’ora di pranzo, ma che ogni tanto si ricorda di essere un imputato.

La faccia, gli occhi della Morescanti, quelli di una mamma premurosa, dolce, ma sempre pronta a bacchettarti, fosse anche solo con lo sguardo, che tante volte basta.

La faccia della Casoria mentre legge la sentenza di primo grado. Bravo chi l’ha vista, quella faccia. Mai alzata dal foglio che stava leggendo, forse per sopravvivere alla vergogna di ciò che c’era scritto.

Le facce di tanti, troppi (e anche uno solo sarebbe stato troppo) che hanno visto distrutte carriera, onore e futuro per colpa di chi, senza scrupoli, li ha coinvolti in questa storia e di chi, pur potendo, non ha avuto il coraggio di ristabilire la verità.

Chi mi conosce sa bene che idea mi sono fatto su questo processo, per avere assistito a quasi tutte le udienze, aver letto gran parte degli atti processuali, aver ascoltato quello che doveva essere ascoltato, dopo aver parlato con i protagonisti della vicenda, i giornalisti che si sono interessati al processo in maniera seria (uno, forse due).

Chi mi conosce bene sa che per la professione che svolgo, indegnamente la stessa di tanti colleghi presenti in quell’aula, mi è stato insegnato a non commentare le sentenze, ma ad accettarle e, se è il caso, ad appellarle.

Ma i miei maestri mi perdoneranno se mi sono permesso di rimanere sbigottito davanti a verdetti senza senso. Verdetti in cui è stabilita la colpevolezza degli imputati per alcuni capi di imputazione e non per altri, del tutto simili; si è condannato il direttore generale di una squadra e si è deciso, nello stesso istante, che quella squadra non era responsabile delle azioni del suo dirigente. Già nel 2006 era chiaro che qualcosa non quadrasse, che i tasselli non erano tutti al loro posto. Le sentenze, invece di fare chiarezza, hanno reso questa sensazione ancora più netta, quasi una certezza.

Mi perdoneranno, i miei maestri, se penso che se le sentenze, che come scopo dovrebbero avere quello di dispensare certezze, non fanno che aumentare i dubbi, vuol dire che sono sentenze sbagliate.

Mi scuseranno i miei maestri se una volta tanto mi sono permesso di dire che sentenze pronunciate “in nome del popolo italiano” mi hanno lasciato, dentro, un profondo senso di iniquità. E se, guardando negli occhi e le facce dei colleghi più anziani e più esperti, ci ho ritrovato la stessa sensazione, vuol dire che quelle sono state davvero cattive sentenze.

Ora è davvero finito. Domani, 22 gennaio, la Cassazione dirà la parola finale su tutta questa storia durata forse anche troppo.

Dopo, tutto sarà un ricordo, una sensazione da portare dentro, un insegnamento per il futuro.

Dopo, se ci sarà un atto di coraggio, potrà essere articolo 39, revisione del processo sportivo, risarcimento danni.

Dopo.

Ma per adesso c’è ancora quel sapore amaro di una brutta storia che nemmeno una sentenza favorevole della Suprema Corte (come dicono quelli bravi) forse potrà mai attenuare.

Eh sì, Calciopoli è proprio una brutta pagina!

Francesco Alessandrella (Twitter @Alessandrella)