Non è la RAI

Il calcio in Italia è l'argomento più trattato, più discusso e più controverso, va oltre la crisi economica, l'immigrazione, la politica nazionale ed internazionale, va oltre tutto. E' la più importante arma di distrazione di masse e, inevitabilmente, è stato risucchiato nel buco nero del campionato della lotta di potere intestina. Da un lato c'è chi tende a salvaguardare il proprio orticello, tentando di cristallizzare posizioni di controllo a scapito del progressivo miglioramento, e dall'altro c'è chi tende a fotografare dall'alto lo stato di salute del nostro calcio tentando di ricreare una classe sportiva dirigente con lo scopo di riportarci nel gotha del football mondiale.

Impresa ardua e difficile, che rasenta l'impossibile soprattutto se per diffondere messaggi positivi, soluzioni o alternative si è obbligati all'emigrazione mediatica, si è costretti all'internazionalità e siamo costretti, noi spettatori esterni, a conoscere la più diffusa lingua straniera, almeno, per capire come fare e come agire per farlo. Buffa la differenza tra l'esigenza dei calciatori o degli allenatori stranieri che vengono in Italia obbligati ad imparare la nostra lingua, prima per capire come allenare e come giocare e, non di minor importanza, anche per sapere cosa dire quando vengono intervistati, e la necessità dei nostri managers sportivi che, pur esprimendosi, quasi tutti, in un italiano accettabile, debbono impegnarsi all'estero per spiegare qualcosa che primariamente andrebbe discusso nelle sedi competenti quali Lega Calcio e FIGC e, soprattutto, spiegato in un italiano, ancor più semplice se possibile, a tutti coloro che il calcio lo vivono e lo fanno vivere: i tifosi tutti, da stadio, da tastiera, da divano o sciarpati e urlanti.

Ma non si può. Non vogliono.

Nonostante l'obbligo di passare tutte le notizie, anche le più scomode, che riguardano tutti i club, prima della verità o prima di una notizia svestita da pareri prevale il riguardo, l'opinione edulcorata, l'interpretazione campanilistica e soprattutto lo scoop dalla memoria corta che oggi è così e domani vedremo. Tutti i network, nessuno escluso, ne soffrono; quelli che dovrebbero garantire l'equità di informazione per etica, per morale ma soprattutto per il ruolo auto attribuitosi di dispensatori di servizio pubblico, e cioè la RAI, e anche quelli che dovrebbero ricacciarsi in gola l'urlo della gioia o della disperazione esclusivamente perché chi li guarda, tifa e paga. Paga e tifa. Noi possiamo farlo, voi no. E' la cruda realtà del giornalismo sportivo italiano, difficile da ammettere, ma sarebbe più comprensibile passar sopra per i networks a pagamento. In fondo paghiamo per vedere, meno per sentire, almeno per il calcio, e quando la Juventus asfalta l'avversario, poi possono anche dire di tutto e di più. Noi marchiamo 3 e proseguiamo.

Più difficile sorvolare sui programmi sportivi istituzionali come la Domenica Sportiva, Dribbling, Sabato e Domenica Sprint e Novantesimo minuto i quali, oramai svuotati dell'esclusività delle immagini, dovrebbero ritrovare. energia oltre che con i servizi sportivi. anche con il servizio pubblico sportivo e riposizionarsi come veicolo di informazione primario italiano per spronare e trainare il calcio al di fuori da una logica di Guelfi e Ghibellini. Con professionisti di livello come Paola Ferrari, Enrico Varriale, Massimo De Luca, Andrea Fusco, Mario Mattioli e Marco Mazzocchi, non dovrebbe essere così difficile, soprattutto se coaudiuvati da giornalisti e tuttologi di valore internazionale come Collovati, Boniek, Gene Gnocchi, Zazzaroni e chissà quanti altri ne dimentico. Insomma, la squadra c'è, manca l'arbitro.

Sarebbe forse il caso di rivalutare quei giornalisti allontanati dal microfono solo perché facevano "domande stronze"? Richiamiamoli. Evviva le domande stronze!! Quelle fatte a tutti, però, sui temi che interessano tutti e, perché no, anche di politica sportiva. Qualche domanda stronza la meriterebbe Giancarlo "non dico nulla ma parlo" Abete? O il fu presidente del CONI Gianni "ho paura dei danni" Petrucci? E Malagò ce lo vogliamo dimenticare? E Maurizio Beretta? O quante risposte vorremmo sentire da Palazzi? Con il vantaggio che la domanda, seppur scomoda, sarebbe in italiano, per facilitare la risposta. Certo risposte abetiane hanno poco a che fare con l'italiano, se per italiano intendiamo la comprensibilità; sarebbe dunque necessario sostenere i nostri giornalisti e conduttori del servizio pubblico ricordando loro che ad Abete vanno sempre fatte due domande; la prima specifica e, subito dopo la risposta, la seconda che sarà sempre e solo "Quindi?".

Ma le domande vanno fatte anche ai presidenti: ad Andrea Agnelli in primis, e poi a seguire, a De Laurentiis, Galliani, Moratti, Della Valle, Lotito, fino a James Pallotta, così finalmente sentiremo un americano parlare italiano meglio di Dan Peterson. E invece dobbiamo accontentarci dell'European Club Association Executive Member Andrea Agnelli intervistato dalla CNN di Londra, stimolato su una serie di argomenti se non stronzi almeno interessanti, ad ampio spettro internazionale quali lo spostamento dei Mondiali di calcio in inverno perché diventa difficile correre per 90 minuti dietro un pallone a luglio in Qatar, del potere che avrebbero i networks televisivi piuttosto che i Club o i management sportivi nazionali sulle decisioni da intraprendere, sulla discriminazione territoriale e sul razzismo in generale analizzando la peculiarità della situazione italiana se confrontata con la storica avversione tra Manchester United e Liverpool ad esempio.

Una serie di risposte sensate, che sarebbe utile fossero rese note non solo a chi riesce a capire l'inglese ma a tutti coloro che vogliono capire il calcio in qualsiasi lingua venga giocato. A tutti interesserebbe sapere come si potrebbe tornare tra i primi tre paesi al mondo che contano nel football invece che guardarsi le spalle nel ranking UEFA. A tutti piacerebbe sapere come sia realmente posizionata la Serie A attualmente e quali siano le proposte o le possibili soluzioni da applicare per tornare ad essere protagonisti a livello internazionale. E allora attendiamo che queste e altre domande vengano sottoposte a chi decide cosa fare del calcio italiano e come: non è necessario ricorrere al giornalismo di inchiesta, ad audio catturati nell'etere o scovati in rete, basta una domanda in un italiano comprensibile a Pulvirenti o Zamparini o in un inglese accettabile ad Andrea Agnelli. Tanto capire le risposte sarà sempre un problema nostro.