Torna il braccino del tennista

pepeEh sì, cari tifosi juventini, la tanto decantata mentalità ritrovata, il tanto reclamizzato spirito Juve ritornato ad identificarsi con quelle maglie, al momento in cui serve scappa, si nasconde e svanisce ancora una volta.
Possono capitare serate che nascono male, e il segnale che questa rientrasse nella categoria si è avuto al quarto minuto, quando una sfortunata doppia carambola fra Marchisio e Motta ripagava i viola di quanto seminato (e non raccolto) sabato scorso a San Siro, da dove gli uomini di Mihaijlovic uscirono con un pugno di mosche seppur avessero giocato meglio di oggi.
Ma quello che in altri momenti poteva essere liquidato come un semplice contrattempo, in questa Juventus ha l’effetto di rievocare vecchi fantasmi, far tremare le gambe e svuotare gli sguardi.
Tornano i passaggi in orizzontale, la palla rimane fra i piedi dei soliti che si prendono la responsabilità di scambiarsela in un fazzoletto di campo senza aver idea di cosa farsene.
La manovra torna a ripartire dai piedi di Chiellini, che passa al generoso Melo il quale allarga ora a destra, ora a sinistra.
Un leit motiv del quale francamente credevamo di aver fatto il pieno durante la scorsa, disastrosa stagione.
Krasic è, per una sera, fra i peggiori in campo: le sue scorribande a testa bassa e senza razionalità portano poca utilità e hanno il demerito di lasciare solo al suo destino il nuovo bersaglio preferito dai tifosi: Motta, il nuovo Molinaro, fischiato appena tocca palla.
Intendiamoci, la prova del meratese è a dir poco inadeguata, ma il concorso di colpa del serbo, che lo abbandona fra Vargas e Pasqual liberi di spadroneggiare sulla loro fascia di competenza, è evidente.
Aquilani, evidentemente condizionato dalla “contratturina” patita a Genova, desta le prime perplessità fisiche e caratteriali e non entra mai in partita, riportando alla memoria, almeno nell’occasione, le squallide esibizioni del predecessore Tiago.
Il romano è una scommessa, che fino a ieri sembrava agevolmente vinta, ma una dozzina di partite non possono essere sufficienti per definire un giocatore di talento un grande campione: non lasciamoci travolgere dall’emotività da tifosi esprimendo giudizi affrettati.
Le punte sono abuliche, costantemente spalle alla porta, Del Piero sembra aver esaurito il consueto bonus di inizio stagione e appare senza forze: frana addosso agli avversari, esausto, e nemmeno gli riesce di servire una parabola decente per i saltatori.
Il solo Quagliarella prova a darsi da fare proponendosi come sponda senza però creare spazi utili all’inserimento di qualcuno, soprattutto perché chi dovrebbe inserirsi (Marchisio a parte) non lo fa mai.
Meglio il subentrato Iaquinta, ma forse, più che merito dell’ingresso del calabrese, la maggiore incisività dell’attacco bianconero va addebitata all’apnea in cui la Fiorentina versa nel finale, quando fra acciaccati, debuttanti ed espulsi sembra una specie di ospedale di guerra.
Ma anche in precarie condizioni il fortino resiste, ed è questo che fa più male, soprattutto sul piano della convinzione.
Queste sono partite che vanno vinte, anche giocando male, ed è l’ennesima occasione buttata dalla Juventus in questo scorcio di stagione, che seppur in misura molto più dignitosa all’atto pratico ricalca le tristi annate precedenti.
Per dirla in gergo tennistico tanto caro a Monsieur Blanc, quando c’è da portare a casa non dico il match, ma almeno un set (traduzione: rosicchiare punti ai rivali), ecco che immancabilmente fa capolino il “braccino”, una costante del periodo successivo al 2006.
Magra consolazione: la Juve non perde e rimane solida, ma da stasera ci regala la certezza di non essere competitiva per il titolo, e che la sentenza venga emessa proprio nella settimana in cui qualcuno cominciava a parlare di tricolore è un segnale evidente di quanto in realtà non si sia pronti per certi traguardi.
Lo avevamo scritto nei giorni scorsi presentando la partita di stasera: il 4 dicembre del 1994 nacque di fatto la Juve più bella dell’era moderna, e l’avversario era lo stesso di oggi.
Sono trascorsi ormai 16 anni da quel giorno, da quella rimonta da 0-2 a 3-2.
Una rimonta ottenuta soprattutto con cuore e carattere. Il simbolo di quella gara, l’ho scritto e lo ripeto, a mio personale parere rimane Alessio Tacchinardi, un ragazzino di 19 anni, che sul 2-2 non festeggiò un risultato già di per sé entusiasmante ma si catapultò nella porta di Toldo per raccogliere la palla e riportarla al centro del campo. Voleva vincere, Alessio. Stasera, dopo il gol di Pepe, ho notato un capannello di giocatori, fra titolari e panchinari, e persino il portiere, esultare sfogando la propria gioia per un pareggio a 10 minuti dalla fine. E dopo non ho visto la ferocia che sarebbe servita.
Così arriva un altro pareggio che ha il gusto di sconfitta, e se in altre occasioni c’erano indubbie attenuanti, questa sera non ce ne sono.
Perché battere un avversario rimaneggiato e spuntato era il minimo che questa squadra potesse fare, anche sovvertendo un destino avverso.
Conta poco che la Juventus abbia creato più occasioni degli avversari, conta poco che “ai punti” gli uomini di Del Neri sarebbero stati premiati.
Quelle sciocchezze le lasciamo ad Allegri, che ancora pensa di aver perso immeritatamente con la Juve, quando invece quella sera i bianconeri furono globalmente superiori, soprattutto sul piano della voglia e delle motivazioni.
Ma da quel giorno Allegri ha dato le chiavi del gruppo ad Ibrahimovic (che noi non abbiamo) e i risultati si sono visti, mentre noi abbiamo collezionato solo occasioni mancate.
E quella di stasera è imperdonabile.

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