Il carro dei vincitori

tifosiUn pullman scoperto che sembra galleggiare sulla gente in delirio, i Campioni finalmente rilassati a godersi l’apoteosi, meritata come non mai, idealmente portati in trionfo dai loro tifosi per le vie del centro di Torino, mentre lacrime di commozione e felicità sgorgano da migliaia di occhi e cori possenti e incessanti rimbombano sotto i portici e tra i palazzi della prima capitale d’Italia, nuovamente capitale del calcio italiano. E’ la festa della Juventus, quella ufficiale, organizzata con dovizia di particolari e programmata nei minimi dettagli, dallo stadio a piazza Vittorio Veneto, dopo la spontanea esplosione di entusiasmo di una settimana prima, a scudetto appena vinto.
Il moderno carro dei vincitori, dunque, è sfilato a passo d’uomo tra la folla adorante, in una serata piuttosto fredda dopo un sabato estivo, una serata comunque riscaldata dall’esultanza sfrenata di circa 400.000 persone, secondo le stime giornalistiche.
Chi ha diritto di salire su quel carro oltre a Mister Conte, al suo staff e ai suoi calciatori? Ovviamente il presidente Andrea Agnelli, che ha restituito al popolo bianconero l’orgoglio di farne parte; di certo Marotta e i suoi collaboratori, nonostante i dodici milioni a suo tempo spesi per Jorge Martinez; sicuramente i tifosi, in particolare quelli assidui allo Stadium, che hanno garantito una sfilza di sold out e creato la “bolgia”, come ama definirla il tecnico quando riconosce l’apporto del pubblico di casa. I tifosi, dunque, tutti, compresi quelli che nel corso della stagione si sono lasciati andare a cori poco opportuni che non potevano sfuggire ai censori federali, sempre molto attenti a stigmatizzare l’operato della tifoseria juventina, e che hanno provocato la diffida del campo; compresi coloro che non credevano in Conte ritenendolo un integralista a livello tattico e schiavo di un modulo rischioso come il 4-2-4; compresi quelli che ritenevano Pirlo un giocatore finito o quelli che avrebbero voluto Del Piero sempre in campo manco avesse vent’anni; compresi coloro che hanno crocifisso Bonucci ad ogni minima incertezza senza accorgersi dei miglioramenti qualitativi eccezionali di Leonardo; o quelli che si sono sentiti perduti dopo l’errore di Buffon pro-Lecce, dimenticando in un attimo i valori esibiti per tutto il campionato da una squadra che ha espresso il gioco migliore e sfoggiato una mentalità vincente, unita ad una sicurezza sempre crescente; incluso chi ha storto il naso per i troppi pareggi e avrebbe preferito perdere ogni tanto ma vincere un po’ di più, senza capire la valenza psicologica preziosissima che l’imbattibilità ha avuto nel permeare di certezze i nostri giocatori; compresi quelli che hanno faticato ad accettare Borriello, rivelatosi infine decisivo calcando l’erba sintetica di Cesena e Novara; e i tanti che non avrebbero avuto la pazienza di Conte nell’aspettare che Vucinic si scuotesse di dosso apatia e indolenza e calasse sul tappeto verde gli assi della sua smisurata classe.
In questo lunghissimo elenco ci possiamo ritrovare tutti, qua e là, chi più chi meno, ognuno con la proprie convinzioni e debolezze; d’altronde nessuno possiede la palla di vetro ma soltanto un bagaglio di sensazioni, timori e speranze. In definitiva, però, tutti ci abbiamo creduto, chi prima e chi dopo: ciò che conta è che alla fine abbiamo vinto uno scudetto tra i più belli e meritati della storia bianconera (e non solo).
E’ stata la vittoria di tutti gli juventini, di un popolo che non si è lasciato piegare nei giorni bui del 2006 né disperdere tra le insidie della serie B e assapora oggi il gusto intenso della rivincita, del riscatto, alla faccia di Galliani, di Allegri e di Muntari, alla faccia di chi ci odia e pensava di essersi liberato di noi. Sapevamo che il primo scudetto dopo Calciopoli sarebbe stato speciale: averlo conquistato in modo così limpido e perentorio, senza mai perdere una partita, è stato davvero meraviglioso; e averlo potuto festeggiare nella cornice straordinaria del nostro splendido stadio ha aggiunto emozione ad emozione e ha apportato una gioia inusuale allo stato d’animo sublime di una tifoseria che ai tricolori aveva fatto l’abitudine: un'abitudine poi drasticamente, ingiustamente e dolorosamente smarrita.
Trenta scudetti, tre stelle. Coloro che ne contano di meno non hanno altro a cui aggrapparsi per sfogare la loro rabbia di perdenti e invidiosi o legittimare un’imbarazzante incompetenza da pavidi burocrati risvegliatisi d’improvviso e sempre a senso unico.
Ai nostri avversari lanciamo una sfida: provino ad eguagliarci, anche partendo dai loro incompleti conteggi di comodo che il campo non ha mai sottoscritto. La Juve è pronta.