La storia per "La Gazzetta dello Sport"

ostellino

Abbiamo l'onore di ospitare un articolo di Piero Ostellino: una lettera indirizzata al Direttore della Gazzetta, ma buona per i direttori di tanti altri giornali.

Caro direttore, lasciatelo dire. Voi giornalisti sportivi non ce la farete mai a spiegare come sono andate le cose del calcio nazionale dal 2006 ad oggi perché la vicenda non è sportiva, ma politica. Qui, ci vuole l’analista politico, con l’ausilio di un po’ di Machiavelli, il teorico e consigliere del Principe; un po’ di Talleyrand, il vescovo che servì cinicamente, ma con pari successo, il Re di Francia, la Rivoluzione che al Re tagliò la testa, la Restaurazione che ripristinò lo status quo pre-rivoluzionario senza il Re; un pizzico di Brancaleone da Norcia, che non ubbidiva ad altra regola che alla propria lucida follia.
Nel 2006, con una sentenza “politica” – che, per dirla col Palazzi d’epoca, “rifletteva un diffuso sentimento popolare”, secondo la tradizione demagogica e populista di corresponsabilizzare il Popolo delle porcate della politica - fu sconfessata una squadra che aveva vinto sul campo, i cui giocatori avrebbero dato all’Italia il titolo di campione del mondo, e smantellata un’azienda quotata in Borsa con un danno patrimoniale di molte, molte centinaia di milioni di euro. Una sentenza in cui si diceva che non una sola partita era stata truccata ma che il campionato era stato ugualmente alterato. Fu un golpe. Si era in piena “fase Machiavelli”.
La nuova dirigenza juventina, subentrata a Giraudo e a Moggi, mostrò una rassegnazione che andò ben oltre l’autolesionismo. Ma quei dirigenti non erano degli sprovveduti. Erano i disciplinati “funzionari” di quella grande burocrazia weberiana, i semplici “sottotenentini” di quel compatto esercito che era la Fiat. Avevano ricevuto delle direttive e le eseguivano come un militare cui si sia detto, a Torino, “avanti march” e ci si sia, poi, scordati di intimargli l’”alt”. Lo si era ritrovato allo Stretto di Messina che batteva il passo. Alle loro spalle si allungava l’ombra dei due Grandi Consiglieri che avevano servito esemplarmente il Principe e che, ora, ne interpretavano le ultime volontà con quell’eccesso di realismo che contraddistingue i grand commis quando si incarnano nel Principe non avendone né la grandezza né l’equilibrio politici. Fu un disastro cui contribuì, in modo decisivo, la Federazione italiana gioco calcio nelle vesti di Talleyrand, assecondando la logica del Potere, non quella dello Sport; in omaggio al detto del gran cinico che “i princìpi sono belli soprattutto perché li si può disattendere quando si vuole”.
A questo punto, però, la musica cambia. Si entra nella fase dell’imprevedibilità della Commedia dell’Arte. Luciano Moggi non accetta di fare da capro espiatorio, veste i panni (solo apparentemente) del pazzo Brancaleone da Norcia; tiene duro di fronte alla magistratura ordinaria – che, per parte sua, non può “far politica” come ha fatto quella sportiva - difendendo se stesso e, indirettamente, persino la Juve che ha rinunciato a difendersi. Pare votato al suicidio, dopo che hanno cercato di farlo a pezzi. Invece, è il solo che veda lucidamente quale è il gioco che si sta giocando e lo scombina. Saltano fuori intercettazioni, in un primo tempo scartate, che riguardano non solo la (supposta e comunque lieve) “slealtà sportiva” della Juve, per la quale è stata cacciata in B, ma anche comportamenti ben più compromettenti dell’Inter. Con la relazione di Palazzi, l’Inter è accusata di “illecito sportivo”; un’accusa pesante, anche se ancora tutta da provare. All’Inter era stato assegnato un titolo di campione d’Italia che non meritava, non da un ex dirigente interista, ma sotto l’egida di un avvocato d’affari, bene addentro ai Poteri nazionali, nominato Commissario della Figc. Che aveva fatto il suo mestiere. Aveva assecondato, con la sua indubbia autorevolezza di studioso, il Potere del momento.
Siamo, ora, alle battute finali. L’Inter - alla dura presa di posizione della Juve, per bocca del suo presidente, Andrea Agnelli, che chiede giustizia - reagisce come da copione precedente. Che non funziona più e si traduce in una sorta di regressione infantile; né arrogante né immorale ma che, come quella di un bambino che non sa ancora che cosa sia la morale, è a-morale. Si indigna perché sarebbe stata messa in discussione l’”onestà personale” di Facchetti – che “personalmente” era un gentiluomo - mentre in discussione è il suo ruolo di rappresentante degli interessi dell’Inter. Direbbero a Milano, che l’Inter “fa il piangina”. E la Federazione – che non ha ancora capito da che parte penda ora il pendolo del Potere - riveste i panni di Talleyrand e “decide di non decidere”. Ma la Juve non molla; si appellerà alla giustizia ordinaria. Per l’Inter, piangere e fottere non paga più.