Calcio e criminalità: non chiamate “pentito” chi cerca solo uno sconto di pena

PentitoQualche giorno fa ho partecipato a un incontro pubblico in cui si è dibattuto sul rapporto fra calcio e criminalità. Mi ha colpito piuttosto positivamente la volontà di un’amministrazione pubblica di promuovere un incontro di conoscenza dei fatti criminosi che hanno fatto diventare il nostro sport nazionale una delle attività preferite dalla criminalità organizzata per i propri investimenti e speculazioni in genere. In contrapposizione a tali fatti la volontà di questi appuntamenti è quella di promuovere il “calcio pulito” all’insegna di comportamenti etici orientati al fair play. Tutto bene, tutto giusto, clap clap. “Però, c’è un però”! Quando si tratta di reprimere presunti comportamenti illeciti passando dalle sentenze dei tribunali ordinari a quelle dei tribunali sportivi qualcosa non torna e certe differenze non sono nemmeno sottili, ma sostanziali. A questo proposito mi sento di fare un paio di osservazioni.

Pentiti davvero? Mi colpisce innanzitutto l’uso che si fa del termine “pentiti” non solo da parte di giornalisti sportivi evidentemente poco addentro a questioni legali, ma anche da parte di magistrati, per fare riferimento a chi, durante l’iter dei processi sportivi, lancia accuse verso questo o quel collega e, in nome di tale collaborazione con gli organi di giustizia sportiva, può godere di un sostanzioso sconto di pena rispetto alle malefatte commesse. Ma c’è una sostanziale differenza fra “i Buscetta” e “i Carobbio”. Nei processi ordinari che hanno riguardato in particolare mafia e terrorismo, qualsivoglia dichiarazione di chi si è pentito è stata passata al vaglio di riscontri che hanno decretato l’attendibilità di certe deposizioni. In antitesi al pentitismo che ha permesso agli organi inquirenti di compiere passi avanti per approfondire la propria conoscenza delle organizzazioni malavitose, si è diffuso infatti anche il “falso pentitismo” che consta di deposizioni mendaci ed è stato organizzato ad arte dalla stessa criminalità organizzata per sviare le indagini orientandole su falsi obiettivi. Nella giustizia sportiva invece si sono assunte per “oro colato” le dichiarazioni “dei Carobbio” senza che sulle stesse sia stato fatto alcun riscontro e, mi viene da pensare, solo perché certe dichiarazioni tenevano in piedi un certo tipo di castello accusatorio.

Il tempo di difendersi. Per smontare il castelletto di certe accuse forse sarebbe sufficiente dare l’opportunità al collegio difensivo degli imputati di controinterrogare chi accusa, in modo da evidenziare eventuali imprecisioni, contraddizioni e quant’altro. Ma la giustizia sportiva non fornisce tale opportunità a chi dovrebbe potersi difendere. Ne vengono fuori sentenze frutto di processi sommari che, anche se si tratta pur sempre di decisioni di una giustizia domestica, sono in manifesta antitesi con i principi ispiratori di uno Stato di diritto. “Non c’è tempo - dicono gli addetti ai lavori - bisogna fare presto perché poi iniziano i campionati”, ma è evidente che si tratta di una giustificazione “debole” che rischia di minare ulteriormente la credibilità stessa di una Federazione che sembra proprio scoprirsi competente o meno secondo il rapporto di convenienza. Mi pare lapalissiano che si debba ricercare una “giustizia giusta” e non una “giustizia veloce”, affrettata poi dai tempi della prescrizione. Servono contrappesi che garantiscano i diritti della difesa e andrebbero riscontrate certe accuse, magari dando proprio la possibilità di controinterrogare chi accusa e cogliendo così i classici due piccioni con una fava. Continuare a fare il bello e il cattivo tempo basando i propri giudizi su sentenze sportive frutto di processi indiziari non ha nulla di conciliabile con l’intenzione di promuovere incontri sull’etica e la legalità nello sport, e contribuisce piuttosto a fornire l’immagine di un movimento fermo ai tempi della Santa Inquisizione.